mercoledì 30 dicembre 2009
Padroni
Quindici anni or sono la classe dirigente della Prima Repubblica venne spazzata via. E gli italiani, da quel momento, stanno ahimé immobili, aspettando il nuovo padrone - specialmente a sinistra. Dato che chi si ferma è perduto, tutto va allo sfacelo. Del resto, eliminato ogni dissenso, sembra ormai pronta la Grosse Koalition che dovrebbe prendere in mano le sorti di questo Paese - una Grosse Koalition che si stava preparando già nel 1976. Le cose poi andarono storte, e per far rientrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta si è dovuti passare per lo "sdoganamento" dei fascisti - ricordo che alle medie ci portarono a una mostra sull'EUR, in cui si tessevano le lodi di questa meravigliosa realizzazione mussoliniana, e la mostra era sponsorizzata non da Gelli, ma dalla Fondazione Agnelli.
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lunedì 28 dicembre 2009
Sistema elettorale (II)
Negli ultimi post discutevo sulle sottigliezze antidemocratiche dei sistemi elettorali, partendo dal mostruoso Porcellum. Questo sistema è una bazza per le minoranze ricche contro le maggioranze povere – a causa della coesistenza del premio di maggioranza con lo sbarramento elettorale, non solo per la patologia delle liste bloccate. Se penso però che i propositori del recente referendum sulla legge elettorale, che avevano l’intento di rafforzare il peso della società civile rispetto a quello dei partiti, non hanno pensato a niente di meglio che ad aumentare il premio di maggioranza (tecnicamente cambiando i requisiti per il suo calcolo) e senza toccare le liste bloccare, diminuendo quindi il peso dell’opinione pubblica e rafforzando quello della coalizione vincente, mi viene un certo scoramento. Temo che al fondo vi sia una tipica caratteristica italiana. Gli italiani infatti rispettano mai la decisione della maggioranza, sembrandogli inconcepibile che altri possano avere più ragioni di loro, salvo poi chiedere un “uomo forte” che imponga quelle decisioni che essi stessi non rispettano..
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Uninominale
Il sistema uninominale anglosassione – e il concetto derivante “the winner takes all” – sono nati nell’America e nella Gran Bretagna rurali del ‘700; ogni villaggio, ogni quartiere, eleggeva un proprio rappresentante da mandare al Parlamento, ed era logico e inevitabile il sistema uninominale, che nasce però, quindi, per eleggere rappresentanti di una comunità, non dei singoli elettori; per quanto corretto poi dal suffragio universale, il principio è diametralmente opposto a quella di “un uomo un voto”.
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domenica 27 dicembre 2009
Sistema elettorale
Riflettendo sul "porcellum" (che meglio sarebbe chiamare procellum), consideravo come molti equilibri di governo che attribuiamo al "consenso popolare" siano in realtà dovuti in gran parte al sistema elettorale. Il "porcellum" unisce un premio di maggioranza con lo sbarramento elettorale - un mostruoso ircocervo che vorrebbe richiamarsi al proporzionale corretto tedesco, ma in relatà riprende, la vecchia "legge truffa" in forma assai più truffaldina - garantendo alla coalizione di destra una larghissima maggioranza parlamentare con una percentuale dei votanti ben al di sotto della maggioranza assoluta - da cui lo svilimento del parlamento ecc. Con un sistema veramente proporzionale avremmo probabilmente un sistema di "cogestione" della cosa pubblica, non molto diverso da quello della Prima Repubblica, in cui la minoranza ha una sorta di potere di veto sulle misure più indigeribili. Certo, ricordiamo tutti la paralisi della Quarta Repubblica francese e l'estrema lentezza decisionale dell Prima Repubblica italiana, però temo che ci si sia fatti influenzare soprattutto dall'idea anglossassone del "the winner takes all", senza considerare che nei Paesi anglosassoni esistono tutta una serie di poteri indipendenti, per esempio la stampa, che svolgono il ruolo di un vero e proprio potere dello stato.
Del resto, nei Paesi anglosassoni, il sistema uninominale a turno unico ha sistematicamente favorito i governi di destra, che probabilmente non avrebbero mai avuto, dal '45 a oggi, una maggioranza o per lo meno una maggioranza sufficientemente ampia per imporre le drastiche riforme per esempio della Thatcher. In Gran Bretagna, del resto, si trovano oggi con l'elettorato che rifiuta i laburisti ma voterà probabilmente per i conservatori non perché approvi veramente questo partito, ma per mancanza di alternative; con un sistema più equilibrato vedremmo probabilmente molti voti spostarsi verso i verdi e partiti di tipo radicale come la "Linke" tedesca, o forse, addirittura, una maggioranza di tali voti.
Da un altro punto di vista, la tanto decantata alternanza è garantita in Europa solamente in Francia, che, dal 1789 a oggi, ha visto regolarmente alternarsi destra e sinistra - con una prevalenza di governi di destra. Nel mondo anglosassone si osserva invece un avvicendamento di partiti a seconda della fase storica, in quanto in un dato periodo i partiti tendono a essere molto simili tra loro per conquistare i voti "di centro" che decidono le sorti delle elezioni nei sistemi uninominali.
per un mappa dei sistemi elettorali del mondo, vedi il bel sito http://worldpolicy.org/projects/globalrights/democracy/maps-pr.html, da cui si evince tra l'altro che nella maggior parte dei Paesi europei vige un sistema proporzionale - e che un sistema proporzionale esiste in tutti quei Paesi in cui governano le sinistre: Spagna, Norvegia ecc. senza per questo che le destre non possano andare al potere quando godono di un consenso reale (Paesi Bassi ecc.).
Del resto, nei Paesi anglosassoni, il sistema uninominale a turno unico ha sistematicamente favorito i governi di destra, che probabilmente non avrebbero mai avuto, dal '45 a oggi, una maggioranza o per lo meno una maggioranza sufficientemente ampia per imporre le drastiche riforme per esempio della Thatcher. In Gran Bretagna, del resto, si trovano oggi con l'elettorato che rifiuta i laburisti ma voterà probabilmente per i conservatori non perché approvi veramente questo partito, ma per mancanza di alternative; con un sistema più equilibrato vedremmo probabilmente molti voti spostarsi verso i verdi e partiti di tipo radicale come la "Linke" tedesca, o forse, addirittura, una maggioranza di tali voti.
Da un altro punto di vista, la tanto decantata alternanza è garantita in Europa solamente in Francia, che, dal 1789 a oggi, ha visto regolarmente alternarsi destra e sinistra - con una prevalenza di governi di destra. Nel mondo anglosassone si osserva invece un avvicendamento di partiti a seconda della fase storica, in quanto in un dato periodo i partiti tendono a essere molto simili tra loro per conquistare i voti "di centro" che decidono le sorti delle elezioni nei sistemi uninominali.
per un mappa dei sistemi elettorali del mondo, vedi il bel sito http://worldpolicy.org/projects/globalrights/democracy/maps-pr.html, da cui si evince tra l'altro che nella maggior parte dei Paesi europei vige un sistema proporzionale - e che un sistema proporzionale esiste in tutti quei Paesi in cui governano le sinistre: Spagna, Norvegia ecc. senza per questo che le destre non possano andare al potere quando godono di un consenso reale (Paesi Bassi ecc.).
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sabato 26 dicembre 2009
Topo Gigio
Ho notato che Topo Gigio, nella pubblicità televisiva per la profilassi dell'influenza suina, inizialmente consigliava norme igieniche, ma non la vaccinazione; solo quando l'epidemia era finita consigliava di vaccinarsi e specificamente sia per la suina che per la stagionale. Sono venuto poi a sapere dai giornali che, se all'inizio il numero di dosi di vaccino era largamente insufficiente rispetto ai soggetti a rischio, alla fine dell'epidemia di suina erano rimaste parecchie migliaia di dosi inutilizzate, con grave onere per l'erario.
venerdì 25 dicembre 2009
Giuda
Mi sono sempre chiesto, a proposito del tradimento di Gesù, non cosa potesse servire al Sinedrio o ai Romani arrestarlo, ma a cosa servisse loro farlo attraverso un traditore. Cristo faceva una vita pubblica, e sembra strano che sia stato arrestato in un luogo segreto, e di notte. Mi è venuto il sospetto che Giuda non Gesù dovesse tradire , ma una persona che si nascondeva tra i discepoli, probabilmente uno zelota antimperiale, forse lo stesso Barabba. Quando i romani ebbero fatto irruzione nel luogo dove si nascondevano i discepoli, Giuda indicò non Cristo, ma Barabba; a quel punto Gesù, per coprirlo, disse di essere lui il "ladrone" e si consegnò ai romani, un po' come Salvo d'Acquisto ai nazisti.
Si spiegherebbe così coerentemente sia il silenzio al processo, sia il fatto che Pilato, che doveva aver capito benissimo l'inghippo, abbia chiesto al popolo di scegliere tra Barabba e Gesù, e come il popolo, composto in larga parte di zeloti, abbia scelto di liberare Barabba.
Acquista anche un altro senso, molto meno spirituale e più politico, il senso della frase "si è immolato per i nostri peccati".
Merry Christmans!
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Legalità
Il giochino – a dire il vero itnelligente e sottile – che fa la destra – svuotare le istituzioni repubblicane dall’interno – è tutto riassunto nella gran voga del termine “legalità”, che significa rispettare non la legge, ma la forma della legge, o, in altre parole, rispettare la forma e non la sostanza della legge – la noiosa tiritera che la forma è sostanza ha molto aiutato questo processo. Fino ad ora il baluardo alla sostituzione della legge con la legalità è stato rappresentato dalla magistratura, forte – in una misura scandalosa per la destra – non solo perché con tangentopoli ha acquisito una legittimità e indipendenza che prima non aveva – i processi si facevano solo ai poveracci, quando si toccava un potente venivano trasferiti a Roma allora soprannominata “il porto delle nebbie” - ma anche perché il diritto – come sottolinea spesso su Repubblica Luca Cordero – ha natura deduttiva, e l’albero delle deduzioni permette di ricollegare ogni norma con ciascuna altra, così da formare un tutto unico. Rispettare la forma e non la sostanza significa fondamentalmente separare le norme tra di loro – oppure scrivere, come spesso e volentieri fa questo governo, norme che sono in contraddizione con il resto del corpus giuridico. Rocco, che era comunque un grande giurista, non si sarebbe mai sognato di fare tanto, tant’è vero che ancora usiamo il suo Codice, con qualche pulizia ad opera della Corte Costituzionale.
Del resto, se volessero riscrivere il corpus del diritto nella sua interezza, dovrebbero dire chiaramente quello che vogliono, cioè che ci sono degli uomini superiori a cui tutti gli altri debbono ubbidire. Se ancora non l’hanno fatto, è perché questo è in contraddizione con la vocazione plebiscitaria: nei sistemi aristocratici e fascisti la legittimità viene dalla forza delle armi; come possono essere gli schiavi imbelli a legittimare l’uomo superiore? Temo che però qualche sofisma per superare questa contraddizione se lo inventeranno, per quanto assurdo dal punto di vista logico, convincente dal punto di vista emotivo – come al solito e come facevano i sofisti parecchi secoli fa. Forse si tratterà di una divisione in caste – e non più in classi.
Del resto, se volessero riscrivere il corpus del diritto nella sua interezza, dovrebbero dire chiaramente quello che vogliono, cioè che ci sono degli uomini superiori a cui tutti gli altri debbono ubbidire. Se ancora non l’hanno fatto, è perché questo è in contraddizione con la vocazione plebiscitaria: nei sistemi aristocratici e fascisti la legittimità viene dalla forza delle armi; come possono essere gli schiavi imbelli a legittimare l’uomo superiore? Temo che però qualche sofisma per superare questa contraddizione se lo inventeranno, per quanto assurdo dal punto di vista logico, convincente dal punto di vista emotivo – come al solito e come facevano i sofisti parecchi secoli fa. Forse si tratterà di una divisione in caste – e non più in classi.
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mercoledì 23 dicembre 2009
Ingorgo
domenica 20 dicembre 2009
9 maggio 1978
Il 9 maggio del 1978 l’Italia si è fermata e ancora non è ripartita. Basta vedere i cinquantenni che vanno in giro con il cappellino da baseball, come adolescenti. I pochi che continuavano a muoversi – Padoa Schioppa, don Ciotti – si trovavano di fronte gente che era come presa da un incantesimo. Speriamo che il gesto dello “psicolabile” contro il mago Silvio abbia rotto l’incantesimo.
Incidentalmente, la faccia di Berlusconi ferito ricorda stranemente quella di Golia nel dipinto di Caravaggio.
Incidentalmente, la faccia di Berlusconi ferito ricorda stranemente quella di Golia nel dipinto di Caravaggio.
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Eden minoico
Ho visto su un libretto una strana immagine in un medaglione minoico, che ricorda da vicino il racconto biblico della cacciata dall'Eden. La dea madre siede con dei papaveri in mano sotto l’albero della vita: sembra quasi una prefigurazione di Eva – il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male era forse il papavero da oppio? In alto si vede una bipenne, simbolo di Zeus – che corrisponde anche nella radice a Yahweh. Interessante è anche lo spirito in alto a sinistra, formato da due scudi, che sembrano il caduceo (fatto di serpenti intrecciati!) di Hermes, messaggero di Zeus – il serpente biblico corrisponde forse a Hermes greco?
Per quanto riguarda il papavero da oppio (Papaver somniferum), si tratta di una specie generalmente considerata originaria del mediterraneo occidentale probabilmente per selezione di specie indigene, anche se oggi le maggiori coltivazioni sono in Afghanistan.
Per quanto riguarda il papavero da oppio (Papaver somniferum), si tratta di una specie generalmente considerata originaria del mediterraneo occidentale probabilmente per selezione di specie indigene, anche se oggi le maggiori coltivazioni sono in Afghanistan.
domenica 13 dicembre 2009
Equilibrio
Secondo un’antica malconcezione greca, associamo l’idea di equlibrio all’idea di stabilità. Gli ecologi, per esempio, spesso dicono che il balance of nature non esiste perché l’ecosistema è altamente mutevole. Ma è proprio l’equilibrio tra el forze contrapposte che lo compongono che permette l’esistenza delle strutture, senza di cui non si potrebbe avere movimento. Se, per fare un esempio semplicissimo, non vi fosse equilibrio tra l’inerzia dei pianeti e l’attrazione gravitazionale del sole, i pianeti o si perderebbero nello spazio o collasserebbero sul sole, e non avremmo più nessun sistema solare. Questa idea equilibrio = staticità è strettamente collegata con l’altra idea che l’indifferenziato rappresenti il movimento, mentre il differenziato la stasi – l’idea per esempio dei surrealisti, dei dionisiaci ecc – idea che credo rimonti ad Aristotele. In realtà, l’indifferenziato non puà muoversi – se una ruota non è a contatto con un piano che gli fornisce una controspinta gira su se stessa.
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Legge elettorale
Il caos politico culturale e morale italiano è il caos di un vuoto di potere, molto simile a quello della Somalia, conseguente allo sgretolamento della DC e del PSI dopo tangentopoli (e la caduta dei blocchi). Se però solo dello sfaldamento di una classe politica si trattasse, sarebbe ben poco danno – Prodi aveva sostituito egregiamente per ben due volte quella precedente. Il problema vero è la contrapposizione tra i vecchi “poteri forti”, cioè la grande borghesia industriale del Nord-ovest e la chiesa, e i poteri emergenti degli industriali del nord-ovest e forse della mafia imprenditrice. Nel post precedente ipotizzavo che una soluzione potrebbe essere il federalismo, che però, allo stato attuale delle cose, porterebbe probabilmente a una disgregazione del Paese. Un’altra soluzione che mi frulla per la testa – perché ovviamente soluzioni non ne ho – è quella di ridare centralità al parlamento che potrebbe rappresentare il luogo di mediazione tra le varie forze del Paese. Negli ultimi trent’anni ha avuto grande fortuna l’idea anglosassone che l’esecutivo debba essere fortissimo – idea smentita dal perfetto funzionamento della parlamentarissima Germania; sarebbe forse ora di liberarsi di queste posizioni puramente ideologiche. Un parlamento centrale richiederebbe, vista la polarizzazion geografica delle forze in campo, una legge elettorale che rafforzasse le rappresentanze locali. Una tale legge rischierebbe di schiacciare i ceti urbani delle grandi città (quelli progressivi, solitamente), proprio ciò che avviene negli Stati Uniti (il grande peso dato ai piccoli collegi nel sistema elettorale americano permette il persistere e spesso l’egemonia di forze reazionarie come quelle che hanno sostenuto Bush), ma forse un’opportuno disegno dei collegi elettorali potrebbe ovviare al problema. Il Mattarellum, per quanto mostruoso dal punto di vista estetico, in fondo funzionava; mentre il Porcellum garantisce potere quasi assoluto a una minoranza: Lega + Pdl, pur non raggiungendo la maggioranza assoluta dei votanti, hanno una maggioranza bulgara in Parlamento. Questa sproporzione tra rappresentazione nella popolazione e nel parlamento – e non la mancanza di buone maniere - è la vera causa dell’acutezza dei conflitti politici. Purtroppo, disegnare un sistema elettorale decente è ostacolato dal fatto che non bisogna toccare Casini, e anche dal fatto che in questo meraviglioso Paese raramente elaboriamo risposte nostre ai nostri problemi: di solito compriamo i format dagli stranieri.
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Nell’editoriale di oggi su "Repubblica", Scalfari avvicina le forzature berlusconiane al 18 brumaio di Napoleone. In effetti, la Francia è un paese in cui sostanzialmente non esiste separazione dei poteri, esattamente come sembra volere Berlusconi: non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, il parlamento è unicamerale e il presidente ha un mandato lunghissimo (non so se sia immune come il presidente italiano e quello degli Stati Uniti). In Francia, tuttavia, un contrappeso a questa enorme concentrazione di potere esiste, ed è la piazza: dal 1789 i francesi (per meglio dire i parigini) fanno le barricate, e nessuno si sogna di contestare la legittimità delle barricate celebrate da Delacroix in un celebre dipinto; le barricate, infatti, sono l'incarnazione stessa della liberté. C’è un articolo della Costituzione francese che afferma che nessuno può incarnare la sovranità in sé stesso; dal punto di vista giuridico è senza senso, ma rappresenta la legittimazione dei movimenti di protesta quando il “sovrano” abusa dei suoi poteri. La storia del nostro Paese è ben diversa, sia perché lanostra tradizione è quella di “re buoni” che sparano cannonate sui pacifici lavoratori in sciopero, sia perché se Parigi è la Francia, Roma non è certo l’Italia, Paese dei mille borghi (e questa forse è la sua maggiore ricchezza), sia ancora perché storicamente la Francia, almeno dai tempi di Luigi XIV, si articola intorno a tre poli: il “popolo”, l’”aristocrazia” e il re, che, quest’ultimo, fa da mediatore tra i primi due. Quando Luigi XVI venne decapitato, si ruppe l’equilibrio, aprendo la strada al putsch di Napoleone Bonaparte. Venendo a tempi più recenti, l’equilibrio era venuto a mancare nella Quarta Repubblica, che sostanzialmente proseguiva l’esperienza cosituzionale del fronte popolare, proprio per la mancanza di un”re” che venne restaurato da De Gaulle.Certo, anche in Italia è venuto a mancare il mediatore (la DC) tra “aristocrazia” e “popolo”. Ancora più grave però è il fatto che i "poteri forti" (l'aristocrazia), cioè grande borghesia industriale del nord-ovest e chiesa, sono fortemente indeboliti, per l'emergere, come sottolineato da Scalfari, degli industriali del nord-est, e anche dell'industria finanziaria milanese, e, forse, della mafia imprenditrice. Il "popolo", in questo contesto, si divide, tra chi rivendica la propria autonomia e chi invece cerca di allearsi con l'"aristocrazia". Forse, data la forte caratterizzazione geografica di queste diverse forze politiche - l'Italia, appunto è paese di mille città - la soluzione starebbe, guarda un po', nel federalismo; purtroppo, gli stati federali esistenti (Stati Uniti, Germania ecc.) a un forte potere locale contrappongono un fortissimo potere centrale, con l'eccezione della Confederazione Elvetica, che è sostanzialmente ancora una costellazione di cantoni.
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martedì 8 dicembre 2009
Divieto
Nei regimi democratici e più in generale negli stati di diritto il principio fondamentale è che tutto ciò che non è vietato è permesso. Il diritto positivo (cioè l'insieme delle leggi) è infatti in realtà un insieme di divieti. Anche quando una norma si presenta come un obbligo, in realtà rappresenta il divieto del contrario di quello che è obbligato. Questo principio deriva da una necessità fondamentale: la certezza del diritto. Nessuno può essere obbligato a fare qualcosa, perché non è possibile verificare se quello che è stato imposto è stato effettivamente realizzato; mentre è facile verificare che un atto non è stato compiuto. Una vecchia, bellissima vignetta di Quino, che la dittatura l'aveva conosciuta, mostra un poliziotto che al centro della piazza affigge un cartello con su scritto: "indovina cos'è vietato". In Italia non siamo per fortuna a questi livelli, però in questo Paese che pure è stato la patria del diritto, inconsciamente viene applicato il principio che tutto ciò che non è permesso è vietato.
Il governo del fare
Spesso si dice che il governo non fa niente. Non è vero. Il governo fa, e talora anche bene: le case dell'Aquila sono state effettivamente consegnate e gli aquilani terremotati hanno un alloggio. Il problema è quello che non fa: nel caso dell'Aquila, i restauri non sono stati nemmeno iniziati, e richiederanno, qualora si iniziasse subito, una decina d'anni. Non avendo iniziato subito, si rischia seriamente di trasformare l'Aquila in una città morta, come certi borghi medievali disabitati, affascinanti ma appunto morti. E' proprio questa la caratteristica del governo in carica: fa, ma non fa quello che prevede una lunga prospettiva (e quello che va a favore delle fasce più deboli); e una destra, anche una destra giacobina come questa, non può impegnarsi in tal senso, perché andrebbe contro la sua natura.
A dire il vero, c'è un'altra caratteristica: fanno, ma con scoperto di bilancio (in genere).
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Influenza suina
L'influenza suina è passata. E' iniziata verso fine settembre con molti casi - che gli stessi medici tendevano a minimizzare, per non suscitare il panico - in una forma però blanda. Io ho avuto tre giorni con febbre molto bassa, ma con un senso di spossatezza estrema. Successivamente, verso fine ottobre, c'è stata una seconda ondata epidemica, molto più forte, con febbre altissima, probabilmente dovuta a una forma mutata. Quando è iniziata la - sporadica - campagna di vaccinazione - l'epidemia stava ormai finendo.
Tutto sommato la politica di minimizzazione del governo era giusta.
Bilan de l'Etat
Dans la nouvelle loi de bilan, avec un blitz de la majorité, a paru un trou de bilan de 8 milliard. C'est le même jeu de Storace à la Région Lazio il y a cinq ans: Storace savait que sa rééelection étati improbable, et de consequence a devasté le bilan de la région laissant le charge de combler le trou énorme à son successeur, en esperant qu'il aurait coupé drastiquement la sanité et les service sociaux, ce que son Marrasso n'a pas fait - est-ce cela peut-être la faute que, lui, il a payé avec la découverte de son scandale sexuel?
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domenica 22 novembre 2009
Crédit
Il ya quelques mois, dans un éditoriel sur "Repubblica", Eugenio Scalfari se plaindrait que presque tous les problèmes d'Italie remontent à un crédit limité. Cela a porté a grossir à démésure l'endettement publique, à la limitation de la croissance économique, à la corruption, et meme à la sur-puissance des mafias, qui, eux, disposent d'une liquidité illimitée. Cette diagnose est bien aigue; je crois pourtant que les capitaux pour accroitre le crédit - bien que limités en comparaison avec les autres pays industriaux - existent déja, mais sont immobilisés dans le brique.
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mercoledì 21 ottobre 2009
Lavavetri
Dal primo novembre a Roma saranno banditi lavavatri e mendicanti ma anche i giocolieri – chiunque disturbi gli automobilisti, dice il telegiornale. Indubbiamente lavavetri e co. sono piuttosto fastidiosi, ma il fastidio nasce dall’essere chiusi nella scatoletta dell’automobile, non da persone che in altri contesti porterebbero solo un po’ di colore. Son convinto che saremmo ifnastiditi anche da soavi odalische (per i signori) o da prestanti giovanotti (per le signore e i gay) –figuriamoci da lavavetri piuttosto petulanti.
A Zurigo, la gente non è innervosita come a Roma, non perché non ci siano mendicanti – non ci sono mendicanti, ma è zeppa di tossicodipedenti – ma perché la gente va in tram.
A Zurigo, la gente non è innervosita come a Roma, non perché non ci siano mendicanti – non ci sono mendicanti, ma è zeppa di tossicodipedenti – ma perché la gente va in tram.
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martedì 20 ottobre 2009
Sistina Chapel
The paintings of the Sistina Chapel witness a revolution not only in the forms of painting, but also in the attitude of "reading" of a piece of art, but also in the meaning. The painting by Ghirlandaio, Perugino, Signorelli, Biagio d'Antonio, Cosimo Rosselli, and soprattutto Botticelli are in fact narrative: they represent a story without words – at the beginning this way of painting was addressed at illustrating the histories of Bible for the illiterate, the “Biblia Pauperum”. For instance, in the "temptation of Christ" (left) the story of reconciliation of Medici with the Pope after the Pazzi conjuration (where the Pope had a role) is represented with all the details and people involvede in the story are represented. This political story is blendend with the theological meaning.
Michelangelo’s, in the vault, and even more in the “Final Judgment”, are instead symbolic paintings: no story is narrated, but a complex web of meanings is suggested by the colours, the attitudes, the characters. For instance, the "Drunkness of Noah" (right) is framed among (and related conceptually to) the "Four Seasons"; with the end of the diluvio the seasons begin. The Vault is still strongly influenced by traditional theology, probably supervised by pontifical theologicans; in tht “Judgment" instead, the symbolism is still less nararative and more concveptual.
Michelangelo’s, in the vault, and even more in the “Final Judgment”, are instead symbolic paintings: no story is narrated, but a complex web of meanings is suggested by the colours, the attitudes, the characters. For instance, the "Drunkness of Noah" (right) is framed among (and related conceptually to) the "Four Seasons"; with the end of the diluvio the seasons begin. The Vault is still strongly influenced by traditional theology, probably supervised by pontifical theologicans; in tht “Judgment" instead, the symbolism is still less nararative and more concveptual.
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Burocrazia
La burocrazia italiana è particolarmente irritante in quanto si basa su due principi: 1) la presunzione di colpevolezza del fruitore 2) lo scarico di responsabilità dell’impiegato (e soprattutto del suo dirigente). L’enorme mole di carta, la surreale complessità delle procedure, derivano da questi due semplici principi – in particolare si richiama costantemente la norma, non per profondo senso delle regole, ma per evitare di prendere decisioni di cui ci si assume pienamente la responsabilità.
La legge Bassanini sull’autocertificazione dimostra come sarebbe semplice sfuggire alla complicazione burocratica – riconoscendo i principi perversi che ne sono alla base e rovesciandoli. Questa santa legge si basa infatti sulla fiducia nel fruitore e nell’assunzione di responsabilità da parte dell’apparato. I burocrati del resto opposero all’inizio notevoli resistenze all’applicazione della legge – cercavano in ogni modo di autenticare le firme ecc. nonostante ciò fosse ormai contra legem – sembrava loro assurdo che fosse non al cittadino necessario dimostrare la sua innocenza, ma a loro la sua eventuale colpevolezza.
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Bartleby lo scrivano
La bella novella di Melville, "Bartleby lo Scrivano", ci illustra la nascita della burocrazia e della piccola borghesia. Bartleby è impiegato presso un avvocato: deve ricopiare in “bella scrittura” i testi preparati dal suo capo; è, in sostanza, una macchina per scrivere. A questa totale alienazione si ribellerà con il famoso “I would prefer not to”. Questo sono infatti i burocrati: persone che ricopiano e trasmettono documenti elaborati da chi prende le effettive decisioni (delle macchine per scrivere) oppure fanno conti (delle calcolatrici). Ai tempi di Melville l’apparato burocratico era ancora semplice e trasparente: Bartleby sapeva cosa stava facendo. Col tempo, l’operazione di trascrivere e trasmettere documenti verrà spezzata su infiniti uffici e innumerevoli impiegati, trasformandosi in una rete senza confini di cui nessuno può conoscere lo schema complessivo, raggiungendo rapidamente l’assurdo così bene descritto da Kafka – anche se i complessi edipici giocano un ruolo nelle novelle di Kafka, il tema dei suoi romanzi è sostanzialmente lo stesso di Bartleby.
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lunedì 12 ottobre 2009
Grano
Gli israeliani sono assolutamente convinti che il grano sia stato domesticato in Palestina – ovviamente. Sono abbastanza convinto che la nascia dell’agricoltura sia stata nel Kurdistan. La massima diversità del genere Triticum – il genere del frumento – si trova in Kurdistan, e in Kurdistan – non certo in Palestina – si trova il clima ideale per la crescita del frumento. Quando il frumento è stato portato dal suo ambiente più favorevole - dove probabilmente veniva coltiv ato semplicemente spargendo semi nelle radure della foresta semiarida tipica di quelle regioni - in terre di pianura più aride, probabilmente è stato però necessario sviluppare le tecniche di irrigazione, da cui, secondo l’antica ipotesi, nasce la civiltà.
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Filogenesi dell'indoeuropeo
Questo diagramma dell’evoluzione delle lingue indoeuropee di Schleicher, che ho trovato sul web, chiarisce l’ira d Semeraro contro il “mito” dell’indoeuropeo. Il mito non è l’indoeuropeo – una famiglia linguistica chiarissima – il mito è la “purezza originaria” delle lingue germaniche, contrapposte al derivato e corrotto latino. Semeraro però forse non era al corrente del fatto che l’albero filogenetico delle lingue indoeuropee più accettato (pur con moltissimi dubbi) oggigiorno segue lo schema: ittita / greco e lingue nord-indiane / lingue balto-slave / lingue slave / lingue germaniche e derivate / lingue celtiche / latino. Il tedesco non è più una lingua primitiva, ma una lingua derivatissima! E quest’albero si accorda inoltre benissimo con l’ipotesi di una derivazione dell’indoeuropeo non tanto dalle lingue semitiche quanto dal mondo del Vicino Oriente – di cui gli Ittiti facevano parte. Non so se il protoindoeuropeo ricostruito sia stato rivisto alla base di quest’albero genealogico, in cui il tedesco non è più una lingua primitiva – se così fosse, temo che molte ipotesi di Semeraro verrebbero confermate.
Del resto, il greco è zeppo di radici germaniche (θυγαθερ / Tochter / daughter; δρυς / tree), ma si tratta di conservativismo del tedesco, non del fatto che greco e tedesco siano cognate.
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Fonetica
I filologi tedeschi dell’ottocento hanno cercato di ricostruire la storia delle lingue indoeuropee attraverso le leggi fonetiche. Questi tedeschi! L’evoluzione non segue leggi. Esistono infatti lingue foneticamente evolute e grammaticalmente primitive: il russo per esempio ha sette casi, mentre il tedesco ne ha quattro (e sembra quindi derivato), però foneticamente il tedesco mi sembra – parlo da ignorantello – foneticamente molto primitivo. E’ su questa primitività fonetica – senza considerare la relativa evoluzione grammaticale e lessicale – che si basa non il mito dell’indoeuropeo, ma il mito della primitivtà del tedesco che stava tanto a cuore ai linguisti germanici.
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domenica 11 ottobre 2009
Tonno
Il tonno più pregiatus (Tunnus thynnus) ha carne soda, mentre quello "così tenero che si taglia con un grissino" sono varietà scadenti; la pubblicità - basandosi sull'ignoranza - ha fatto credere che il peggio fosse meglio. Una nota forza politica italiana ha applicato lo stesso metodo, della pubblicità, alla politica.
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Accadico
Giovanni Semeraro crede, come è noto che le lingue indoeuropee derivino dalle lingue semitiche, in particolare dall’accadico. Premesso che l’accadico è sicuramente una lingua molto antica e probabilmente alla base di intere famiglie linguistiche, temo che l’attacco, tanto caro all’autore da poco scomparso, alla teoria dell’ndoeuropeo, nasca da un fraintendimento: ho infatti il forte sospetto – ma parlo da ignorantissimo – che l’accadico non sia una lingua semitica, e che sia stato infilato nel cassetto “semitico” solo per distinguerlo dal quasi coevo sumero.
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Indoeuropeo
Giovanni Semeraro, come è noto, ritiene che non sia esistito un “protoindoeuropeo” all’origine delle lingue indoeuropee, ma che queste derivino dalle lingue semitiche, come dimostrato dalle numerose radici greche e latine (e di lingue germaniche) che si ritrovano nell’accadico. Bellissimo e illuminante studio, però quando intitola un capitolo di un suo libro “il miraggio dell’indoeuropeo” confonde la critica a tre cose diverse
1) la famiglia linguistica indoeuropea raggruppa un gran numero di lingue europee, persiane e dell’India del nord, come l’hittita, il tedesco, il sanscrito, il greco, il latino ecc. Che questa famiglia sia ben delimitata e distinta da quella semitica, che comprende lingue come l’arabo e l’ebraico mi sembra incontrovertibile; come incontrovertibile mi sembra che abbia un’origine comune: del resto, l’albero filogenetico delle lingue coincide quasi esattamente con l’albero filogenetico umano ricostruito sulla base del DNA.
2) Parallelamente al riconoscimento della famiglia linguistica indoeuropea, in Germania ci si accorgeva, all’inizio dell’ottocento, che certi fonemi diventano altri quando una lingua si evolve; per esempio, b diventa p, d diventa t eccetera (si può osservare anche confrontando il toscano con i dialetti meridionali); queste variazioni sono così costanti da configurare delle vere e proprie leggi fonetiche; ora, utilizzando a rovescio queste leggi, si può ricostruire la lingua originaria protogermanica e protoindoeuropea. La critica della validità di questo approccio è il vero oggetto della critica di Semeraro: queste ricostruzioni 1) spesso portano a delle voci che sembrano abbastanza campate in aria 2) se si confrontano le parole indoeuropee con quelle accadiche i risultati sono più convincenti e diretti. Curiosamente, la disputa è simile a quella del famoso linguista americano Joseph Greenberg, che ha proposto uno schema di classificazione delle lingue del Nuovo Mondo basata sulla comparazione diretta e assai più semplice di quella tradizionale dei linguisti americani che era basata fondamentalmente sul metodo delle leggi fonetiche; Greenberg, però, mi sembra molto più rigoroso di Semeraro.
3) La linguistica tedesca si proponeva in fondo di dimostrare la “purezza” delle lingue germaniche – un tema sviluppato ben prima del nazismo ma che nella storia delle idee è purtroppo collegato – però Semeraro si ripropone di dimostrare la superiorità delle civiltà mediterranee, che era un tema caro al fascismo – e infatti recupera un gran numero di studi italiani degli anni trenta. Purtroppo, nessuno è superiore a nessuno; se però si lascia da parte l’ideologia, sia la scuola tedesca che la scuola glottologia italiana danno interessanti contributi. Curiosamente, la scuola linguistica tedesca ha dato il suo più grande contributo quando ha smesso di tentare di spiegare l’evoluzione e l’origine delle lingue, e si è rivolta, con De Saussure (uno svizzero, quindi a metà tra Francia e Germania), allo sviluppo di una teoria generale della lingua, originando lo strutturalismo.
Infine due critiche secondarie: metodologicamente (ardisco dire anche se non sono né un filologo né un linguista) mi sembra piuttosto approssimativo, e, pur coltissimo, piuttosto provinciale, come quasi tutti gli uomini di cultura italiana. Però è un libro assai illuminante, nello specifico, con la ricostruzione di moltissime radici, nello storico, perché rimette in luce una “civitlà mediterranea” non greca, di cui parla anche Sergio Frau – per altro un giornalista - nel suo libro sulle colonne d’ercole.
1) la famiglia linguistica indoeuropea raggruppa un gran numero di lingue europee, persiane e dell’India del nord, come l’hittita, il tedesco, il sanscrito, il greco, il latino ecc. Che questa famiglia sia ben delimitata e distinta da quella semitica, che comprende lingue come l’arabo e l’ebraico mi sembra incontrovertibile; come incontrovertibile mi sembra che abbia un’origine comune: del resto, l’albero filogenetico delle lingue coincide quasi esattamente con l’albero filogenetico umano ricostruito sulla base del DNA.
2) Parallelamente al riconoscimento della famiglia linguistica indoeuropea, in Germania ci si accorgeva, all’inizio dell’ottocento, che certi fonemi diventano altri quando una lingua si evolve; per esempio, b diventa p, d diventa t eccetera (si può osservare anche confrontando il toscano con i dialetti meridionali); queste variazioni sono così costanti da configurare delle vere e proprie leggi fonetiche; ora, utilizzando a rovescio queste leggi, si può ricostruire la lingua originaria protogermanica e protoindoeuropea. La critica della validità di questo approccio è il vero oggetto della critica di Semeraro: queste ricostruzioni 1) spesso portano a delle voci che sembrano abbastanza campate in aria 2) se si confrontano le parole indoeuropee con quelle accadiche i risultati sono più convincenti e diretti. Curiosamente, la disputa è simile a quella del famoso linguista americano Joseph Greenberg, che ha proposto uno schema di classificazione delle lingue del Nuovo Mondo basata sulla comparazione diretta e assai più semplice di quella tradizionale dei linguisti americani che era basata fondamentalmente sul metodo delle leggi fonetiche; Greenberg, però, mi sembra molto più rigoroso di Semeraro.
3) La linguistica tedesca si proponeva in fondo di dimostrare la “purezza” delle lingue germaniche – un tema sviluppato ben prima del nazismo ma che nella storia delle idee è purtroppo collegato – però Semeraro si ripropone di dimostrare la superiorità delle civiltà mediterranee, che era un tema caro al fascismo – e infatti recupera un gran numero di studi italiani degli anni trenta. Purtroppo, nessuno è superiore a nessuno; se però si lascia da parte l’ideologia, sia la scuola tedesca che la scuola glottologia italiana danno interessanti contributi. Curiosamente, la scuola linguistica tedesca ha dato il suo più grande contributo quando ha smesso di tentare di spiegare l’evoluzione e l’origine delle lingue, e si è rivolta, con De Saussure (uno svizzero, quindi a metà tra Francia e Germania), allo sviluppo di una teoria generale della lingua, originando lo strutturalismo.
Infine due critiche secondarie: metodologicamente (ardisco dire anche se non sono né un filologo né un linguista) mi sembra piuttosto approssimativo, e, pur coltissimo, piuttosto provinciale, come quasi tutti gli uomini di cultura italiana. Però è un libro assai illuminante, nello specifico, con la ricostruzione di moltissime radici, nello storico, perché rimette in luce una “civitlà mediterranea” non greca, di cui parla anche Sergio Frau – per altro un giornalista - nel suo libro sulle colonne d’ercole.
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mercoledì 7 ottobre 2009
Consumismo
sabato 3 ottobre 2009
Socialdemocrazia
Una cosa che temo non a tutti sia chiara , né a destra né a sinistra, è che in tutti i Paesi d’Europa si tassano i ricchi per pagare i servizi per i poveri – qualcosa di non molto diverso viene prescritto dalla legge ebraica e dal Corano – mentre in Italia si tassano i poveri per pagare i servizi per tutti. Quando Padoa Schioppa – "pagare le tasse è bellissimo" – ha provato a proporre di fare in Italia quello che fanno nel resto d’Europa, tutti a ridere, specialmente a sinistra. Del fallimento di questo tentativo si discute in fondo oggi in Italia – tutto il resto: xenofobia, legalità, ideologia – sono ampiamente ammuina.
Quello che si è fatto in Europa si chiama socialdemocrazia –l ’esempio più eclatante è la Svezia, dove la tassazione arriva circa al 70% senza che nessuno si lamenti di vampirismo – ed era assai vituperata dai comunisti – a ragione, perché era nata per fare argine proprio a un’eventuale rivoluzione comunista, e infatti, ora che il pericolo non esiste più, si sta sgretolando. Oggi va però per la maggiore il modello anglosassone – anglosassone post-thatcheriano, perché da Roosevelt alla Thatcher i paesi anglosassoni hanno adottato la stessa politica economica della Francia, della Germania, della Svezia anche se in forma meno radicale. Il modello postthatcheriano – cioè “ognuno per sé e dio per tutti” piace molto ai ricchi, i poveri credo che non abbiano ancora espresso un parere.
Quello che si è fatto in Europa si chiama socialdemocrazia –l ’esempio più eclatante è la Svezia, dove la tassazione arriva circa al 70% senza che nessuno si lamenti di vampirismo – ed era assai vituperata dai comunisti – a ragione, perché era nata per fare argine proprio a un’eventuale rivoluzione comunista, e infatti, ora che il pericolo non esiste più, si sta sgretolando. Oggi va però per la maggiore il modello anglosassone – anglosassone post-thatcheriano, perché da Roosevelt alla Thatcher i paesi anglosassoni hanno adottato la stessa politica economica della Francia, della Germania, della Svezia anche se in forma meno radicale. Il modello postthatcheriano – cioè “ognuno per sé e dio per tutti” piace molto ai ricchi, i poveri credo che non abbiano ancora espresso un parere.
Del resto, il modello socialdemocratico – ma anche lo stano modello italiano – potevano funzionare senza esasperato conflitto sociale – finché i tassi di crescita dell’economia erano elevatissimi – all’incirca dal 1945 al 1972. Oggi i tassi di crescita tendono – al di là delle crisi finanziarie – sempre più a zero, per il semplice motivo che l’economia non può crescere all’infinito.
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domenica 20 settembre 2009
Macroregioni
Di fatto, il federalismo fiscale è stato realizzato di fatto, attraverso lo smantellamento della spesa pubblica dello stato centrale. C'è il rischio, a questo punto, che ciò provochi una reazione, con il risultato, non di tornare allo stato centralizzato (che del resto nella sanità per esempio non esiste più da tempo) quanto di rimanere a metà tra centralismo e decentramento, con risultati paralizzanti. Credo tuttavia che molti dei problemi sull'assetto regionale dell'Italia derivino da un limite inerente alle attuali regioni, e cioè che sono troppo piccole; questo di fatto gioca a favore della Lega, perché solo le regioni del nord (e forse la Sicilia) hanno una massa di popolazione e soprattutto di redditto sufficienti per equivalere approssimativamente a un Land tedesco. Oltretutto, solo le regioni del nord corrispondono (in parte) a vecchi stati preunitari: la Basilicata non è mai stata un'unità amminsitrativa del Regno delle Due Sicilie. Unità ragionevoli dovrebbero essere le macroregioni, corrispondenti approssimativamente ai collegi delle penultime europee: nord-ovest, nord-est. centro, sud più isole. Queste regioni corrispondono, oltre che ad aree economicamente ed elettoralmente omogenee, anche alle aree antropologiche individuate da Emmanuel Todd: il nord-ovest con famiglia nucleare liberale, il nord est con famiglia ceppo incompleta, il centro con famiglia comunitaria e il sud e le isole con famiglia nucleare liberale. Il gran trucco dei leghisti è stato l'invenzione di un'entità - la Padania - che oltre a non essere mai esistita, è estremamente da qualsiasi punto di vista la si consideri: economicamente (esistono aree arretrate anche al nord), sociale, economico, linguistico, e anche storico: prima della conquista di Roma, a ovest vi erano popolazioni liguri, a est popolazioni venete: i celti hanno avuto un dominio breve e solo sulla parte centrale.
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venerdì 18 settembre 2009
Afghanistan
in Afghanistan, l'occidente ha ormi perso la guerra. Sarebbe ora di ammetterlo - del resto non ci erano riusciti né gli inglesi né i russi - e di smettere anche con i giochini in cui gli americani appoggiano Karzai e gli europei l'altro. Certo, i vincitori sono i talebani: ma il popolo afghano non semvra - viste le ultime elezioni - amare neanche un po' i talebani. La soluzione sarebbe forse quella di armare una Resistenza, per avere poi un governo libero?
New York
Gli ebrei, dopo duemila anni a fare l’ebreo errante – dando tantissimo alla cultura europea – si sono stufati e sono tornati nella terra promessa, che non è Israele, ma – come dice Moni Ovadia – New York: non a caso il cantore di New York è un ebreo, Woody Allen. Tra l’altro, New York è come a e a un mio caro amico ebreo piacerebbe che fosse la Palestina, una terra dove vivono tutti i popoli e tutte le razze; e dove, tra l’altro, gli ebrei neanche comandano veramente, seguendo in questo la legge mosaica dove solo Dio è re – un re che tra l’altro lascia completa libertà ai suoi sudditi, e che funge più che altro da modello - e agli uomini compete di amministrare la loro vita.
A questo punto, la distruzione del Rockfeller Center – queste erano le torri gemelle – sembra un attacco dei fascisti americani perliberarsi degli ebrei americani. Questo politicamente; la dinamica specifica dei fatti è marginale: il lavoro sporco potrebbero anche averlo fatto degli islamo-fascisti. Ed è possibile, purtroppo, che quello che non è riuscito a Hitler, sia riuscito così a loro. Per il resto del mondo cambia poco, però questo significa che forse l’America non è più il Paese della statua della libertà (statua scolpita a Parigi).
A questo punto, la distruzione del Rockfeller Center – queste erano le torri gemelle – sembra un attacco dei fascisti americani perliberarsi degli ebrei americani. Questo politicamente; la dinamica specifica dei fatti è marginale: il lavoro sporco potrebbero anche averlo fatto degli islamo-fascisti. Ed è possibile, purtroppo, che quello che non è riuscito a Hitler, sia riuscito così a loro. Per il resto del mondo cambia poco, però questo significa che forse l’America non è più il Paese della statua della libertà (statua scolpita a Parigi).
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giovedì 10 settembre 2009
Modo sociale di produzione
Spesso si pensa che il marxiano modo sociale di produzione, motore della storia, sia l’economia. In realtà l’economia è una conseguenza del modo sociale di produzione: il modo sociale di produzione è la suddivisione in classi di una società e il correlato sistema di rapporti proprietari. Un determinato modo sociale di produzione deriva fondamentalmente dalle tecnologie disponibili in un determinato momento storico - che a loro volta sono sviluppate dalle esigenze che nascono all’interno del modo sociale di produzione precedente . Per esempio, il sistema feudale era diviso in aristocratici e contadini – suddivisione sancita da un preciso status giuridico prima ancora che economico – e si è passati, con il miglioramento delle pratiche agricole, con larivoluzione industriali si è passati a una suddivisione in borghesia e proletariato. Va tenuto ben presente, però, che l’evoluzione da un modo sociale di produzione all’altro non è meccanico e deterministico, perché dal modo sociale di produzione A possono potenzialmente derivare più di un modo sociale di produzione “figlio; la strada da intraprendere in questi sentieri che si biforcano è una scelta essenzialmente politica.
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Pinocchio
Se ripenso alla mia giovinezza, ho passato il più classico dei complessi di Edipo: ho ucciso il padre (metaforicamente, ovviamente) e sono ritornato alla madre. Ma il complesso di Edipo, temo, è cosa da ebrei (o comunque da società matrilinenari). Studiando i ragazzetti mi sono accorto infatti che non passano per il complesso di Edipo, ma per il complesso di Pinocchio: fuggono dalla madre (la fatina) e salvano il padre, e solo allora diventano non adulti, ma – da esseri di legno – di carne. Si tratta di un complesso che gli italiani hanno sempre avuto, o è una conseguenza di questa società sostanzialmente senza padri? L’Italia non ha ancora superato il suo complesso di Pinocchio (il padre sarebbe ovviamente Berlusconi), e se sì, quando lo supererà, diventerà una società diversa? Ci sono altri Paesi con il complesso di Pinocchio?
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lunedì 7 settembre 2009
Bill VIola (II)
I already discussed the recent exhibit of Bill Viola at Palazzo delle Esposizioni in Rome (http://castorphans.blogspot.com/search/label/Bill%20Viola); I stressed the spiritual travel mounted in the exhibit; it should be added that it is fundamentally a travel in the netherworld, or in a cemetery; the video-paintings resemble the small pictures we can find on italian graves, pictures that are intendend to preserve the image of the dead, but that spread instead a sense of inescapable mourning. The images of Viola are at first splendidly aesthetical; but when they slowly begin to move, this motion conveys the sensation of a ghost dead long time ago.
On the other hand, death and kitsch are the two pillars of contemporary art from -at least - Warhol to Hirst. There are many resistant artists (Kounellis, Josef Beuys etc.), but they are not liked very much by the market.
On the other hand, death and kitsch are the two pillars of contemporary art from -at least - Warhol to Hirst. There are many resistant artists (Kounellis, Josef Beuys etc.), but they are not liked very much by the market.
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Kitsch
I was unaware that the famous "Fountain" by Duchamp was proposed to an exhibition that required, for exposition, that the work should conform to given measures, should be made from a range of pre-defined materials and should be signed. When i read the story, I suddenly realized (contrary to my former interpretation http://castorphans.blogspot.com/2008/06/letteratura.html) that Duchamp was simply saying: "your art is a pissoir; in fact my pissoir complies with the standards you demanded for your exhibit."
In other words, Duchamp, that is sometimes considered the beginner of contemporary glorification of kitsch, was in fact launching an attack to the kitch of academic art.
Anyway, from "Fountain" on, the debate of contemporary art has been fundamentally wether to denonce kitsch (for instance the movement of Arte Povera, or, among critics, Daverio; or to accept its forms and to do art in this framework (for instance Koons, Damien Hirst, or, among the critics, Bonomi).
Anyway, kitch has a long history, dating back at least from XVII century; I have just read a wonderful little book (F. Gualdoni, Kitsch, SkiraMiniArtBooks) that presents a round-up of many shamefully kitsch works: many are nonetheless true masterpieces (for instance the painting by Lorenzo Lotto with Love pissing on Venus).
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Tempo
Benigni
Alla festa del PD Benigni ha detto che lui parla di mignotte, escort, veline, non di cose personali come la disoccupazione e la crisi. Più che una battuta su Berlusconi – in fondo è uno che ha avuto il suo quarto d’ora di notorietà, anche se questo quarto d’ora è durato 15 anni e anche se ha fatto comodissimo a molti – credo che sia una battuta sugli italiani – sostanzialmente riformula quello che ben sappiamo, che in Italia contano (o meglio, sono una proprietà personale) le relazioni personali, mentre le cose di tutti sono res nullius – ed è stato facile appropriarsi di una cosa di nessuno.
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Universals
1) Particulars can be defined as something that exist in space and time (has extension), whereas universal do not exsts in space and time; in the phrase “this apple is red” “this apple” is a particular because it exist in space and time, whereas “red” is a universal because the redness doesn’t exist in space and time; this approach, nonetheless, overmphasizes the importance of space and time; space and time are in some way physical object and not logical objects..
2) Another definition is that particulars are multiple and that universal are unique. Nonetheless, each particular is actually unique: two red apples will always differ for some quality different from “redness”. A way to define multiplicity is that two objects are “copies” if they are identical or more similar than a third object; this means that in fact we should investigate the meaning of “resemblance”; resemblance is a universal, but it should be given to it a status particular among the other universals.
3) Another definition is that of Hegel: the concrete is the unity of all determinations; in terms of particulars and universals, a given particular is the intersection (set) of all the universals related to that given particular. This is in some way a kind of realism.
4) If we join the definition 4 with the nominalist position: universals are set of individuals, we have a quite simple possible solution to the “problem of the universals”; universals are set of particulars, and particulars are sets of universals; the definition is not circular, because the two sets are not the same.
5) This solution is equivalent; or at least can be better understood, if we postulate that there are entities, that we will nam “atoms”, that are neither particulars nor universals. Suppose for instance that we have the atoms A B C D E; suppose the quality α (universal) is the set AB, and that the quality β is the set CDE; there are four possible particulars: a particular a with the qualities αβ, a particular b with only the quality α a particular c with only the quality β and a particular d with no quality. Thus the particular a is composed of the atoms ABCDE, the particular b is composed of the atoms AB, and so on. The construction of the reciprocal sets of particulars and universals in this case is somewhat undeterminate, but can be more rigorous if the process is closed (if the operation of set construction represent what mathematicians call a group).
6) Atoms need not to have qualities (qualities are sets of atoms), they only need to be distinct. Of course, distinct means “with no resemblance”; and therefore the problem of unviersal is fundamentally the problem of resemblance.
7) Anyway, it is actually not necessary to postulate atoms – although I suspect that something like that exists “beyond reality” - they are only an euristic tool for understanding. Universals and particulars are reciprocal sets, and it doesn’t matter of what matter they are made, only the process necessary to construct them.
8) A mathematical method exists – called calibration – that, starting from individuals (particulars), defines classes (universals) and than redefines the individuals – iteratively. I am not able to explain it rigorously, but intuitively it is based on the fact that when we pass from particulars to set of particulars (universals) and then back we give a refined definition of particulars and then we go from these particulars to universals and so on, we must, at each step, change our definitions (the boundaries of our sets) a little. Step after step, this changement can decrease, increase, or remain the same; the only acceptable solution is the first, where the set progressively tend toward a stable solution.
9) In fact, the stable solutions can be many or even infinite, but this is not, in my opinion, a problem, but an enrichment. We can read the myth of Edip at different levels, and levels aer possible different solution of the iterative process of constructing reciprocal sets.
10) Incidentally, this definition of universals and particulars, means that “this apple si red” is true when “this apple” and “redness” belong to reciprocal sets of particulars and universal. This can depend on the context a centaur doesn’t exist in the physical world, but exists in the world of literature – different contexts are different solution in the iterative process of construction of reciprocal sets of universals and particulars.
11) An appealing alternative solution to the problem of unviersals is represented by the theory of tropes. Tropes are unique in quality but multiple in number; only the concepts of multiplicity and quality are necessary (although of course thus the problem of the definition of quality and numebr arises, a very hard but very interesting problem) and particulars are considered a collection of tropes. Coming back to the atoms of point 5), the theory of tropes can be stated as folllowing: AB and CDE are two different tropes, with quality α and β respectively, and particulars are intersections of tropes.
12) tropes shift a logical problem to an ontological problema, which appeals me.
13) I am much indebted for this discussion to the Internet Encyclopaedia of Phylosophy (http://www.iep.utm.edu/universa/ ), whose plain language allows access to difficult phylosophical problem even to non specialists.
2) Another definition is that particulars are multiple and that universal are unique. Nonetheless, each particular is actually unique: two red apples will always differ for some quality different from “redness”. A way to define multiplicity is that two objects are “copies” if they are identical or more similar than a third object; this means that in fact we should investigate the meaning of “resemblance”; resemblance is a universal, but it should be given to it a status particular among the other universals.
3) Another definition is that of Hegel: the concrete is the unity of all determinations; in terms of particulars and universals, a given particular is the intersection (set) of all the universals related to that given particular. This is in some way a kind of realism.
4) If we join the definition 4 with the nominalist position: universals are set of individuals, we have a quite simple possible solution to the “problem of the universals”; universals are set of particulars, and particulars are sets of universals; the definition is not circular, because the two sets are not the same.
5) This solution is equivalent; or at least can be better understood, if we postulate that there are entities, that we will nam “atoms”, that are neither particulars nor universals. Suppose for instance that we have the atoms A B C D E; suppose the quality α (universal) is the set AB, and that the quality β is the set CDE; there are four possible particulars: a particular a with the qualities αβ, a particular b with only the quality α a particular c with only the quality β and a particular d with no quality. Thus the particular a is composed of the atoms ABCDE, the particular b is composed of the atoms AB, and so on. The construction of the reciprocal sets of particulars and universals in this case is somewhat undeterminate, but can be more rigorous if the process is closed (if the operation of set construction represent what mathematicians call a group).
6) Atoms need not to have qualities (qualities are sets of atoms), they only need to be distinct. Of course, distinct means “with no resemblance”; and therefore the problem of unviersal is fundamentally the problem of resemblance.
7) Anyway, it is actually not necessary to postulate atoms – although I suspect that something like that exists “beyond reality” - they are only an euristic tool for understanding. Universals and particulars are reciprocal sets, and it doesn’t matter of what matter they are made, only the process necessary to construct them.
8) A mathematical method exists – called calibration – that, starting from individuals (particulars), defines classes (universals) and than redefines the individuals – iteratively. I am not able to explain it rigorously, but intuitively it is based on the fact that when we pass from particulars to set of particulars (universals) and then back we give a refined definition of particulars and then we go from these particulars to universals and so on, we must, at each step, change our definitions (the boundaries of our sets) a little. Step after step, this changement can decrease, increase, or remain the same; the only acceptable solution is the first, where the set progressively tend toward a stable solution.
9) In fact, the stable solutions can be many or even infinite, but this is not, in my opinion, a problem, but an enrichment. We can read the myth of Edip at different levels, and levels aer possible different solution of the iterative process of constructing reciprocal sets.
10) Incidentally, this definition of universals and particulars, means that “this apple si red” is true when “this apple” and “redness” belong to reciprocal sets of particulars and universal. This can depend on the context a centaur doesn’t exist in the physical world, but exists in the world of literature – different contexts are different solution in the iterative process of construction of reciprocal sets of universals and particulars.
11) An appealing alternative solution to the problem of unviersals is represented by the theory of tropes. Tropes are unique in quality but multiple in number; only the concepts of multiplicity and quality are necessary (although of course thus the problem of the definition of quality and numebr arises, a very hard but very interesting problem) and particulars are considered a collection of tropes. Coming back to the atoms of point 5), the theory of tropes can be stated as folllowing: AB and CDE are two different tropes, with quality α and β respectively, and particulars are intersections of tropes.
12) tropes shift a logical problem to an ontological problema, which appeals me.
13) I am much indebted for this discussion to the Internet Encyclopaedia of Phylosophy (http://www.iep.utm.edu/universa/ ), whose plain language allows access to difficult phylosophical problem even to non specialists.
martedì 1 settembre 2009
cuore
I quattro organi spirituali principali – non certo gli unici, sono cuore polmoni genitali testa e stomaco, che corrispondono in parte ai concetti politici libertà uguaglianza fraternità. L’uguaglianza – concetto politico, quindi riferito ai rapporti tra le persone – soggettivamente deriva dalla testa, che ci fa riconoscere che gli altri hanno i nostri stessi diritti. La fraternità deriva ovviamente dal cuore. La libertà deriva invece dallo stomaco – quando abbiamo paura, ci si chiude lo stomaco, e la paura è la principale e unica nemica della libertà. Zizek sostiene che la crisi contemporanea è dovuta alla troppa libertà. Se la libertà ha sede nello stomaco, forse è un’intuizione importante. I filosofi in genere sono però pessimi medici. Gli organi si influenzano a vicenda; se una parte è troppo grande, vuol dire che altre sono troppo piccole. Per curare uno squilibrio non dobbiamo ridurre la parte troppo grande, perché così ridurremmo tutto l’organismo; dobbiamo invece ingrandire la parte troppo piccola, ingrandendo così tutto l’organismo. La parte troppo piccola credo sia il cuore – dicevo in un altro post. Mah, mi sa che sono parole al vento.
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Voglio
Ho letto più volte su internet frasi del tipo “se vuoi una cosa, prendila”, pubblicate in genere da ragazzetti. Si tratta di una disposizione in fondo altamente positiva – se gli adulti avessero il coraggio di pensarla sarebbero di nuovo giovani. Il problema sta nelle parole “volere” e “prendere”. Cristo diceva – mi pare sia il Vangelo di Tommaso ma potrebbero essere anche i canonici - “se vuoi veramente che quella montagna si sposti, quella allora si sposterà”. A me non è mai successo, però cose analoghe succedono più spesso di quanto si creda. Cosa vuol dire però volere veramente? Significa volere col cuore e non con la testa. Se dico “voglio voglio voglio” è proprio il momento che non otterrò nulla. Molti pensano che il nostro cuore si è rimpicciolito – perché il problema della modernità è tutto qui – per il troppo influsso della testa. In realtà, il cuore si è rimpicciolito per il troppo influsso dello stomaco – non a caso siamo tutti obesi. Del resto, se abbiamo cuore testa stomaco e non solo cuore o solo testa o solo stomaco, un motivo ci sarà; è la disarmonia tra queste tre parti che genera la grave patologia del moderno – uno stomaco troppo grosso che fa rimpicciolire il cuore e un cuore rimpicciolito che fa gonfiare (non crescere) la testa. Alcuni hanno individuato nello stomaco la causa del male, ma la terapia proposta è la pancia vuota – più elegantemente viene chiamata critica alla modernità. La terapia giusta sarebbe ovviamente aver epiù cuore – chi lo propone viene tacciato di “buonismo”, termine a dire il vero così oscenamente orrendo che a sentirlo mi vergogno anch’io (per chi lo ha inventato).
Per quanto riguarda la parola prendere, il problema è che se uno prende una cosa, in genere la prende a un altro – finché lo fanno pochi, la cosa funziona, ma quando lo fanno tutti o non rimane niente, che è quello che sta succedendo in Italia – la colpa di solito viene data agli extracomunitari, gli unici che non prendono niente a nessuno - oppure le cose passano da Tizio a Caio a Sempronio a Calpurnio per poi tornare ovviamente a Sempronio. Quando però il mondo gira nel senso giusto, le cose non si prendono, si creano – non è una cosa esoterica, si chiama produzione – oppure anche procreazione.
Per quanto riguarda la parola prendere, il problema è che se uno prende una cosa, in genere la prende a un altro – finché lo fanno pochi, la cosa funziona, ma quando lo fanno tutti o non rimane niente, che è quello che sta succedendo in Italia – la colpa di solito viene data agli extracomunitari, gli unici che non prendono niente a nessuno - oppure le cose passano da Tizio a Caio a Sempronio a Calpurnio per poi tornare ovviamente a Sempronio. Quando però il mondo gira nel senso giusto, le cose non si prendono, si creano – non è una cosa esoterica, si chiama produzione – oppure anche procreazione.
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fascismi
Tre cose diverse sono in realtà i fascisti italiani. Ci sono i fascisti del tipo Gelli, che hanno perso l’anima, o meglio, l’hanno venduta al diavolo – il diavolo, come insegna il libro dell’Apocalisse, sono i soldi e il potere. Questo tipo sospetto si stia estinguendo, anche se continua a mantenere la sua estrema pericolosità – apprendisti Gelli si trovano piuttosto tra parecchi leghisti. Ci sono poi i benpensanti e i bigotti, che nella forma colta sono genericamente antimoderni. Infine la categoria più ampia è rappresentata da maschi castrati dalla potentissima ctonia madre mediterranea, che cercano di conquistare l’agognata virilità con la violenza e la sopraffazione (quest’ultima cosa diversa dalla prevaricazione). In Sicilia il tipo fascista è estremamente diffuso, anche tra moltissimi che mai vorrebbero definirsi fascisti, e acutamente Vitaliano Brancati ne ha individuato l’origine proprio nel complesso di castrazione. Questo spiega i problemi con la libertà delle donne, con gli omosessuali (che tuttavia erano ben maggiori a sinistra), la retorica (segno di ipocrisia) ecc.
Lascio da parte i nazionalisti, che erano la base del fascismo mussoliniano. I nazionalisti sono molto pochi anche, e soprattutto, a destra.
Lascio da parte i nazionalisti, che erano la base del fascismo mussoliniano. I nazionalisti sono molto pochi anche, e soprattutto, a destra.
Violenza e prevaricazione
Edmondo Berselli, commentando la querela di Ghedini per le 10 domande di Repubblica sulla vicenda delle escort, affermava che Berlusconi aveva gettato la maschera e mostrato tutta la violenza nascosta dietro il sorriso stereotipato. La parola violenza non mi ha convinto. Berlusconi non è violento, è ladro e prevaricatore – ladro nel senso che magari (forse) fa sempre tutto formalmente in regola, ma si appropria tuttavia sistematicamente di quello che suo non è: il gruppo CIR, le frequenze radiotelevisive nazionali, il parlamento. Perché però Berselli ha usato la parola violenza e non prevaricazione? Perché violenza ha assunto una forza negativa che prevaricazione non ha – anzi, prevaricazione è diventato un valore, come dimostrano note trasmissioni televisive (Il Grande Fratello, Amici). E’ un’operazione che agli scrittori che hanno modellato il nostro linguaggio e creato quindi il nostro mondo – sono i poeti che creano il mondo, come diceva fernanda Pivano - è stata in realtà assai facile, perché non hanno fatto altro che lavorare su un carattere preesistente della cultura latina. Quando vieni derubato o calpestato, e tu ha qualcosa da ridire, in Italia i prevaricatori ti rispondono scandalizzati: “come sei violento!” oppure “ma che maleducato!” – i romani facevano esattamente la stessa cosa, basta vedere cosa dicevano di Annibale o di Cleopatra. Mutatis mutandis. C’è però una grossa differenza tra ieri e oggi. I prevaricatori, eppure si vergognavano: il berlusconismo è consistito proprio nel liberarsi dai sensi di colpa.Del resto, non siamo più veramente capaci di violenza. Ci riempiamo gli occhi di immagini di violenza, ma nessuno più o quasi conosce il sapore del sangue – la maggior parte degli accoltellatori che tanto vanno di moda sono semianestetizzati dalla cocaina - il cui piacere irragionato si chiama violenza e che si vede reale ormai solo nei documentari sugli scimpanzè a caccia di piccole prede. Forse l’antico tabù ebraico del sangue qualche effetto alla fine l’ha prodotto
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lunedì 24 agosto 2009
tempo
Consiglio a tutti il libro di Elena Esposito “il futuro dei futures”. Era tantissimo che non leggevo qualcunio che dicesse qualcosa di nuovo. La riflessione dell’autrice (che sa iltedesco, e la cosa non è irrilevante) parte da futures e derivati. Va di moda dire che si trattava di un’economia irreale e che bisogna tornare all’economia reale. Però milioni di persone sono rimaste senza una casa e ora vivono in tende e roulottes: tanto irreale, quell’economia, non doveva essere. Esposito ha capito una cosa che era addirittura ovvia: che il denaro è tempo. In particolare, un imprenditore non è, come pensava Marx, uno che impianta una fabbrica, ma uno che prende soldi in prestito, cioè prende la ricchezza che non ha dal futuro, e la trasferisce nel presente dove quella ricchezza ancora non c’è, esattamente come il mercante veneziano prendeva le spezie da lontano e le portava in Europa dove non c’erano. Dato che nulla si crea e nulla si distrugge, tuttavia, quello che è stato preso dal futuro deve essere ripagato con la produzione attuale – quando questo non avviene si hanno le crisi, e questa seconda parte Marx l’ha spiegata meglio di chiunque altro.
Del resto, a parte l’espressione “il tempo è denaro”, a parte che nella teeoria marxiana non è il lavoro, ma il tempo di lavoro che basa il valore, i soldi non sono altro che dei pagherò: i soldi in senso moderno – cioè non come semplice numerario, per usare il termine marxiano – sono stati inventati dai banchieri toscani, che emettevano dei pagherò: tu ora mi dai 10 tese di stoffa, in futuro ti pagherò l’equivalente in oro. Da quel momento, ci siamo messi a commerciare il nostro tempo, e come giustamente sottolineato da Esposito, il tempo è diventata la nostra ossessione e la nostra prigione. Dato che ogni euro che percepiamo è sostanzialmente un debito, abbiamo paura di non riuscire a ripagare tutto prima di morire, col risultato che abbiamo un terrore della morte sconsociuto ad altre epoche, terrore che è il tema di un buon numero di artisti contemporanei (primo fra tutto, Damien Hirst).
Fin qui, Esposito non ha scoperto nulla di nuovo – anche se spesso non c’è nulla di più nuovo, soprendente e sconosciuto delle cose che si sanno già – dove la sua analisi diventa interessante è nel tentativo di capire la natura del tempo. Si tratta di un problema su cui si sono arrovellati filosofi e scienziati per millenni, senza riuscire a dare una definizione minimamente convincente. Esposito prende sul serio i derivati – che sono sostanzialmente assicurazioni contro i rischi – e individua la natura del tempo nella sua incertezza. E’ una visione lontanissima da quella della scienza: per la scienza il tempo è una dimensione paragonabile a quella dello spazio. Kurt Vonnegut immagina una persona che riesca ad andare avanti e indietro nel tempo come riusciamo a fare nello spazio: questa persona può vedere il momento della sua morte. Un universo così è però sostanzialmente statico: posso andare avanti e indietro, ma è un mondo del tutto fermo. Il tempo della scienza è untempo assolutamente reversibile, e il mondo della scienza è come un poliedro, che posso ruotare e spostare, ma che rimane sempre lo stesso – non diversamente dall’universo per la religione, che già esisteva csì come si dipana nella storia nella mente divina. Del resto, un mondo statico è probabilmente l’unico che può essere trattato analiticamente. Del resto, come giustamente sottolinea esposito, la teoria economica tratta un’economia sostanzialmente statica, proprio per renderne possibile la trattazione matematica.Un tempo incerto è invece un tempo aperto alla possibilità. E ci sono due branche della fisica che hanno incorporato l’incertezza (probabilità): la termodinamica e la meccanica quantistica. La seconda legge della termodinamica spiega perché gli eventi vanno in una sola direzione: la cosiddetta “freccia del tempo”; la meccanica quantistica ha portato molti a immaginare un universo che si scompone continuamente in infiniti mondi possibili.
Incidentalmente, il fatto che il tempo incerto è il tempo della possibilità, si può tradurre in termini teologici col fatto che dio cambia, cioè crea anche sé stesso – l’ebraismo era arrivato a qualcosa del genere, e gli scolastici avevano intravvisto il problema con il famoso quesito se dio potesse creare una pietra tanto grande da non poterla sollevare nemmeno lui – quesito che ha senso solo con un dio statico.
Insomma, una visione probabilistica del tempo porta a vedere in un modo completamente diverso il concetto di necessità; i mistici (vedi Dante) hanno sempre identificato libertà e necessità - usando i termini di Monod non esiste differenza tra caso e necessità – facendo sempre attenzione di non scambiare la necessità con la prepotenza e la cattiveria degli uomini. Ma le intuizioni dei mistici non si mangiano: forse invece questo strumento dei derivati, che così male abbiamo usato – puramente per avidità, potrebbe aprire una finestra dalle enormi conseguenze.
Del resto, a parte l’espressione “il tempo è denaro”, a parte che nella teeoria marxiana non è il lavoro, ma il tempo di lavoro che basa il valore, i soldi non sono altro che dei pagherò: i soldi in senso moderno – cioè non come semplice numerario, per usare il termine marxiano – sono stati inventati dai banchieri toscani, che emettevano dei pagherò: tu ora mi dai 10 tese di stoffa, in futuro ti pagherò l’equivalente in oro. Da quel momento, ci siamo messi a commerciare il nostro tempo, e come giustamente sottolineato da Esposito, il tempo è diventata la nostra ossessione e la nostra prigione. Dato che ogni euro che percepiamo è sostanzialmente un debito, abbiamo paura di non riuscire a ripagare tutto prima di morire, col risultato che abbiamo un terrore della morte sconsociuto ad altre epoche, terrore che è il tema di un buon numero di artisti contemporanei (primo fra tutto, Damien Hirst).
Fin qui, Esposito non ha scoperto nulla di nuovo – anche se spesso non c’è nulla di più nuovo, soprendente e sconosciuto delle cose che si sanno già – dove la sua analisi diventa interessante è nel tentativo di capire la natura del tempo. Si tratta di un problema su cui si sono arrovellati filosofi e scienziati per millenni, senza riuscire a dare una definizione minimamente convincente. Esposito prende sul serio i derivati – che sono sostanzialmente assicurazioni contro i rischi – e individua la natura del tempo nella sua incertezza. E’ una visione lontanissima da quella della scienza: per la scienza il tempo è una dimensione paragonabile a quella dello spazio. Kurt Vonnegut immagina una persona che riesca ad andare avanti e indietro nel tempo come riusciamo a fare nello spazio: questa persona può vedere il momento della sua morte. Un universo così è però sostanzialmente statico: posso andare avanti e indietro, ma è un mondo del tutto fermo. Il tempo della scienza è untempo assolutamente reversibile, e il mondo della scienza è come un poliedro, che posso ruotare e spostare, ma che rimane sempre lo stesso – non diversamente dall’universo per la religione, che già esisteva csì come si dipana nella storia nella mente divina. Del resto, un mondo statico è probabilmente l’unico che può essere trattato analiticamente. Del resto, come giustamente sottolinea esposito, la teoria economica tratta un’economia sostanzialmente statica, proprio per renderne possibile la trattazione matematica.Un tempo incerto è invece un tempo aperto alla possibilità. E ci sono due branche della fisica che hanno incorporato l’incertezza (probabilità): la termodinamica e la meccanica quantistica. La seconda legge della termodinamica spiega perché gli eventi vanno in una sola direzione: la cosiddetta “freccia del tempo”; la meccanica quantistica ha portato molti a immaginare un universo che si scompone continuamente in infiniti mondi possibili.
Incidentalmente, il fatto che il tempo incerto è il tempo della possibilità, si può tradurre in termini teologici col fatto che dio cambia, cioè crea anche sé stesso – l’ebraismo era arrivato a qualcosa del genere, e gli scolastici avevano intravvisto il problema con il famoso quesito se dio potesse creare una pietra tanto grande da non poterla sollevare nemmeno lui – quesito che ha senso solo con un dio statico.
Insomma, una visione probabilistica del tempo porta a vedere in un modo completamente diverso il concetto di necessità; i mistici (vedi Dante) hanno sempre identificato libertà e necessità - usando i termini di Monod non esiste differenza tra caso e necessità – facendo sempre attenzione di non scambiare la necessità con la prepotenza e la cattiveria degli uomini. Ma le intuizioni dei mistici non si mangiano: forse invece questo strumento dei derivati, che così male abbiamo usato – puramente per avidità, potrebbe aprire una finestra dalle enormi conseguenze.
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domenica 23 agosto 2009
Dopotutto non è brutto
Ho letto “dopotutto non è brutto" di Francesco Bonami. E’ il solito snob, che critica lo snobismo degli snob perché non sono abbastanza snob (mi sono messo a scrivere come lui – non ci vuole niente) – e soprattutto critica quelli che in quello che dicono ci credono. Però ho apprezzato l’invito all'esercizio - difficilissimo - del pluralismo con cui comincia il libro.
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sabato 22 agosto 2009
Ara Pacis
Now the debate has a little went down, but the case of Ara Pacis by Meier created even two parties: the left defends the building, whereas the right hates it. The arguments are wether the case is beautiful or bad, or if we should destroy or preserve buildings that are marks of the past, or if the case inserts in the (ugly and chaotic) surroundings; but, strangely, nobody speaks of the Ara Pacis itself. We are all discussing the architectural qualities of the case, but we are indifferent to the fate of the masterpiece that the case should preserve. I recently visited the monument; I'm afraid it pays an original sin: it was placed in that particular position along the Tiber not to present it in its context - it is completely disconnected from the original context now and was disconnected from the context when in the Morpurgo's case - but because Mussolini wanted to present himself as the new Augustus. I would have preferred that, when the Ara Pacis was restored a few years ago, it had been transferred in a museum, for instance in the Capitolini Musea or better in the national Rome Museum. There it could have been put in connection with other pieces of art of the time. Instead, we asked Richard Meier to answer an impossible question, and we are blaming him because he could not solve it.
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venerdì 21 agosto 2009
autostima
Acoltavo un lavoratore, credo dell’Alitalia, che descriveva la corruzione imperante nel settore. Stavo per congratularmi, ma mi sono improvvisamente reso conto che non denunciava queste cose per sdegno, ma perché sotto sotto avrebbe voluto far parte anche lui del sistema della corruzione e non poteva. Berlusconi, con un perverso meccanismo psicologico, dà l’impressione alla massa di chi non conta nulla di partecipare all’intreccio politica-affari di cui è garante, come San Gennaro fa credere ai napoletani di essere padroni del proprio destino proprio nel momento il loro destino è nelle mani di eventi imperscrutabili, naturali e politici. Chi critica Berlusconi o San Gennaro, toglie a queste persone l’unico puntello che hanno per non sentirsi nulla. E infatti, la reazione è rabbiosa.
Daniel Pennac, in Chagrin d’Ecole, parla di come fosse un pessimo scolaro. Ai professori appariva un cancre, uno sfrontato, un furbacchione – in realtà, si sentiva un cretino, e più i professori gli davano del cretino, più si confermava quest’opinione di sé stesso. Ne uscì con la severa disciplina del collegio – le difficoltà da superare gli ridiedero fiducia nelle proprie capacità – perché di questo si tratta, fiducia nelle proprie capacità, senza la quale si delega a qualcuno che ci appare migliore di noi – ovviamente, uno in uno stato depressivo come quello descritto si affida solitamente ai lucignoli e ai gatti e le volpi. Noi - e i russi - siamo stati in collegio per più di cinquant'anni - Come ne usciremo?
Daniel Pennac, in Chagrin d’Ecole, parla di come fosse un pessimo scolaro. Ai professori appariva un cancre, uno sfrontato, un furbacchione – in realtà, si sentiva un cretino, e più i professori gli davano del cretino, più si confermava quest’opinione di sé stesso. Ne uscì con la severa disciplina del collegio – le difficoltà da superare gli ridiedero fiducia nelle proprie capacità – perché di questo si tratta, fiducia nelle proprie capacità, senza la quale si delega a qualcuno che ci appare migliore di noi – ovviamente, uno in uno stato depressivo come quello descritto si affida solitamente ai lucignoli e ai gatti e le volpi. Noi - e i russi - siamo stati in collegio per più di cinquant'anni - Come ne usciremo?
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Andreotti
Molti pensano che Andreotti fosse il capo della mafia. Andreotti non era il capo della mafia, era colui che mediava tra mafia e stato – o meglio, tra mafia, stato per conto della Chiesa. A un certo punto, quando ha capito che la Prima repubblica stava finendo, la mafia ha deciso di mettersi in proprio, e ha reciso in legami con l’entourage andreottiano.
Seconda repubblica
Quando Gorbaciov venne in Italia, un giornalista, intervistato alla televisione, disse che l’Italia aveva gli stessi problemi dell’Unione Sovietica. Oggi quell’osservazione sembra quanto mai vera. La dissoluzione dello stato sovietico ha permesso a una serie di avventurieri di impossessarsi delle risorse del Paese o comunque di farsi spazio nel vuoto. La Russia è un paese in mano alle mafie e a potenti proprietari delle aziende ex pubbliche, qualcosa di simile alla Somalia, in cui ancora non si è ricostituito uno stato organizzato. Queste mafie sono interssate solo ai loro affari, non alla gestione del territorio, cosa che in un certo senso la mafia siciliana ha fatto – pur nel modo barbarico e feudale che conosciamo.Tanto più la società si dissolve, tanto più cresce il consenso per l’atoritarismo di Putin –un autoritarsimo, si badi bene, più recitato che effettivamente esercitato. In Italia, dopo tangentopoli, una vasta categoria di persone ha tvato modo di arricchirsi nella dissoluzione della Repubblica. Si tratta essenzialmente di imprenditori che vivono o di appalt pubblici, o di protezioni da parte dello stato, o di sussidi – l’evasione fiscale costituisce di fatto un sussidio “non statalista” di milioni e milioni di euro ogni anno” – e di politici, che hanno potuto scalare i gradini di un potere che non avevano – si tratta egneralmente di ex portaborse della classe politica precedente – proprio perché garantiscono appalti, protezione e sussidi a questi “imprenditori”. Gian Antonio Stella ha bene individuato nella “casta” il concetto centrale del Paese, ma si è dimenticato che la casta non è quella dei politici, ma quella dellintreccio tra politica e affari – il caso Alitalia ne è l’esempio paradigmatico. In questa situazione di dissoluzione dello stato, cresce il consenso per l’autoritarismo “gentile” di Berlusconi. E come Putin di fatto protegge le mafie, così Berlusconi è il garante di questo intreccio tra politica e affari, legittimato con una costruzione ideologica da clinica psichiatrica a cui il padrone di Mediaset ha lavorato trent’anni, ottenuta mischiando in una mostruosa macedonia concetti presi per lo più da sinistra – dal liberalismo, dal libertarismo, dal socialismo, dal regionalismo anarchico.
La mafia tradizionale si trova oggi in una situazione paradossale. Faceva parte a tutti gli effetti del sistema delal Prima Repubblica; ora, pur avendo contribuito in modo importante alla costruzione della seconda repubblica, credo soprattutto con un contributo finanziario e non politico,– si trova fuori dal sistema. Gli appalti mafiosi, sarebbe interessante fare una statistica, riguardano una quantità di denaro assai più piccola di quella che è girata, per esempio, intorno all’Alitalia. La “casta” politico-imprenditoriale sembra del resto pronta ad accettare un partner con una così immensa liquidità. Dato che per diventare imprenditrice a tutti gli effetti la mafia deve rinunciare alla violenza – l’ha dichiarato e l’ha fatto – la lotta contro gli aspetti violenti e le cosche ancora legate alla violenza – che va benissim ed è utilissima a quella parte della mafia che si vuole “ripulire” - può essere fatta passare facilmente per lotta alla mafia tout court.
Pasolini era profetico quando diceva che il fascismo, nonostante tutto – e per ammissione dello stesso Mussolini – non era minimamente riuscita a fascistizzare l’Italia, mentre perfettamente era riuscito nel compito il consumismo. Gli italiani non sono più il popolo cialtrone ma gentile di una volta – il coatto di periferia, sbrasone ma fondamentalmente buono, è diventato un prepotente fiero di essere prepotente – cioè un fascista. Il berlusconismo nasce dalla dissoluzione della prima repubblica, ma non esisterebbe senza questa “mutazione antropologica”. Se politicamente assomigliamo alla Russia, sociologicamente assomigliamo alla Thailandia di Taiksin, un altro paese in cui il consumismo ha distrutto il tessuto sociale preesistente.
democrazia
IL re del Buthan è quello che meglio ha capito i motivi della superiorità della democrazia. E’ un re saggissimo – come spesso i monarchi orientali –ed è adorato dai buthanesi. Ma un giorno si è chiesto: “e se il mio successore fosse un re corrotto o incapace, cosa succederebbe al mio paese”? e ha cominciato così una serie di riforme democratiche – incontrando lo scontento del popolo, che si trova benissimo con la monarchia. La democrazia funziona infatti non perché il popolo sia meglio del re – la storia è piena di monarchi assoluti saggissimi e devotissimi al loro Paese – quanto perché in una democrazia costituzionale è possibile correggere gli errori, cosa che in un sistema assolutistico o dittatoriale non è possibile o comunque è difficile. Oggi si dice “lo vuole il popolo” come si diceva “Dio lo vuole”. Il problema non è tanto che non esistono né dio né il popolo – il popolo è un insieme di persone, e i momenti più pericoloso sono quelli in cui si sente o lo si fa sentire come un unico organismo. Il problema è che, come tutti, il popolo sbaglia, e sbaglierebbe anche se non fosse imbonito e disorientato dai mass-media. Le procedure costituzionali – un’invenzione romana, incidentalmente – non sono altro che dei meccanismi per correggere gli errori. In altre parole il problema di chi detiene la sovranità è indipendente dal fatto che esistano quelle procedure di controllo che chiamiamo stato di diritto. Gli stati di diritto vengono denominati democrazie liberali, mentre gli stati in cui la sovranità appartiene al popolo, democrazie popolari. L’Unione Sovietica si definiva una democrazia popolare, e in una certa misura aveva ragione; però non esisteva lo stato di diritto. In Gran Bretagna la sovranità appartiene ancora alla regina –meno formalmente di quanto sembri in tempi di pace, e non dimentichiamo inolte che il suffragio unviersale è stato introdotto non prima dell’inizio del ‘900 – eppure vige lo stato di diritto. Nel fascismo non c’è stato di diritto, e la sovranità non appartiene al popolo – anzi, in un certo senso non c’è sovranità.
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Zizek-Berlusconi
Di solito non lo sopporto, ma il fatto che stai stato critica da Repubblica è segno certo che ci ha preso, questa volta.
I miei commenti nel testo.
Berlusconi in Tehran
Slavoj Žižek
When an authoritarian regime approaches its final crisis, but before its actual collapse, a mysterious rupture often takes place. All of a sudden, people know the game is up: they simply cease to be afraid. It isn’t just that the regime loses its legitimacy: its exercise of power is now perceived as a panic reaction, a gesture of impotence. Ryszard Kapuściński, in Shah of Shahs, his account of the Khomeini revolution, located the precise moment of this rupture: at a Tehran crossroad, a single demonstrator refused to budge when a policeman shouted at him to move, and the embarrassed policeman withdrew. Within a couple of hours, all Tehran had heard about the incident, and although the streetfighting carried on for weeks, everyone somehow knew it was all over. Is something similar happening now?
There are many versions of last month’s events in Tehran. Some see in the protests the culmination of the pro-Western ‘reform movement’, something along the lines of the colour-coded revolutions in Ukraine and Georgia. They support the protests as a secular reaction to the Khomeini revolution, as the first step towards a new liberal-democratic Iran freed from Muslim fundamentalism. They are countered by sceptics who think that Ahmadinejad actually won, that he is the voice of the majority, while Mousavi’s support comes from the middle classes and their gilded youth. Let’s face facts, they say: in Ahmadinejad, Iran has the president it deserves. Then there are those who dismiss Mousavi as a member of the clerical establishment whose differences from Ahmadinejad are merely cosmetic. He too wants to continue with the atomic energy programme, is against recognising Israel, and when he was prime minister in the repressive years of the war with Iraq enjoyed the full support of Khomeini.
Finally, and saddest of all, are the leftist supporters of Ahmadinejad. What is at stake for them is Iranian freedom from imperialism. Ahmadinejad won because he stood up for the country’s independence, exposed corruption among the elite and used Iran’s oil wealth to boost the incomes of the poor majority. This, we are told, is the true Ahmadinejad: the Holocaust-denying fanatic is a creation of the Western media. In this view, what’s been happening in Iran is a repetition of the 1953 overthrow of Mossadegh – a coup, financed by the West, against the legitimate premier. This not only ignores the facts (the high electoral turnout, up from the usual 55 to 85 per cent, can be explained only as a protest vote), it also assumes, patronisingly, that Ahmadinejad is good enough for the backward Iranians: they aren’t yet sufficiently mature to be ruled by a secular left.
Opposed to one another though they are, all these versions read the Iranian protests as a conflict between Islamic hardliners and pro-Western liberal reformists. That is why they find it so difficult to locate Mousavi: is he a Western-backed reformer who wants to increase people’s freedom and introduce a market economy, or a member of the clerical establishment whose victory wouldn’t significantly change the nature of the regime? Either way, the true nature of the protests is being missed.
The green colours adopted by the Mousavi supporters and the cries of ‘Allahu akbar!’ that resonated from the roofs of Tehran in the evening darkness suggested that the protesters saw themselves as returning to the roots of the 1979 Khomeini revolution, and cancelling out the corruption that followed it. This was evident in the way the crowds behaved: the emphatic unity of the people, their creative self-organisation and improvised forms of protest, the unique mixture of spontaneity and discipline. Picture the march: thousands of men and women demonstrating in complete silence. This was a genuine popular uprising on the part of the deceived partisans of the Khomeini revolution. We should contrast the events in Iran with the US intervention in Iraq: an assertion of popular will on the one hand, a foreign imposition of democracy on the other. The events in Iran can also be read as a comment on the platitudes of Obama’s Cairo speech, which focused on the dialogue between religions: no, we don’t need a dialogue between religions (or civilisations), we need a bond of political solidarity between those who struggle for justice in Muslim countries and those who participate in the same struggle elsewhere.
Two crucial observations follow. First, Ahmadinejad is not the hero of the Islamist poor, but a corrupt Islamofascist populist, a kind of Iranian Berlusconi whose mixture of clownish posturing and ruthless power politics is causing unease even among the ayatollahs. His demagogic distribution of crumbs to the poor shouldn’t deceive us: he has the backing not only of the organs of police repression and a very Westernised PR apparatus. He is also supported by a powerful new class of Iranians who have become rich thanks to the regime’s corruption – the Revolutionary Guard is not a working-class militia, but a mega-corporation, the most powerful centre of wealth in the country.
Second, we have to draw a clear distinction between the two main candidates opposed to Ahmadinejad, Mehdi Karroubi and Mousavi. Karroubi is, effectively, a reformist, a proponent of an Iranian version of identity politics, promising favours to particular groups of every kind. Mousavi is something entirely different: he stands for the resuscitation of the popular dream that sustained the Khomeini revolution. It was a utopian dream, but one can’t deny the genuinely utopian aspect of what was so much more than a hardline Islamist takeover. Now is the time to remember the effervescence that followed the revolution, the explosion of political and social creativity, organisational experiments and debates among students and ordinary people. That this explosion had to be stifled demonstrates that the revolution was an authentic political event, an opening that unleashed altogether new forces of social transformation: a moment in which ‘everything seemed possible.’ What followed was a gradual closing-down of possibilities as the Islamic establishment took political control. To put it in Freudian terms, today’s protest movement is the ‘return of the repressed’ of the Khomeini revolution.
What all this means is that there is a genuinely liberatory potential in Islam: we don’t have to go back to the tenth century to find a ‘good’ Islam, we have it right here, in front of us. The future is uncertain – the popular explosion has been contained, and the regime will regain ground. However, it will no longer be seen the same way: it will be just one more corrupt authoritarian government. Ayatollah Khamenei will lose whatever remained of his status as a principled spiritual leader elevated above the fray and appear as what he is – one opportunistic politician among many. But whatever the outcome, it is vital to keep in mind that we have witnessed a great emancipatory event which doesn’t fit within the frame of a struggle between pro-Western liberals and anti-Western fundamentalists. If we don’t see this, if as a consequence of our cynical pragmatism, we have lost the capacity to recognise the promise of emancipation, we in the West will have entered a post-democratic era, ready for our own Ahmadinejads. Italians already know his name: Berlusconi. Others are waiting in line.
Is there a link between Ahmadinejad and Berlusconi? Isn’t it preposterous even to compare Ahmadinejad with a democratically elected Western leader? Unfortunately, it isn’t: the two are part of the same global process. If there is one person to whom monuments will be built a hundred years from now, Peter Sloterdijk once remarked, it is Lee Kuan Yew, the Singaporean leader who thought up and put into practice a ‘capitalism with Asian values’. The virus of authoritarian capitalism is slowly but surely spreading around the globe. Deng Xiaoping praised Singapore as the model that all of China should follow. Until now, capitalism has always seemed to be inextricably linked with democracy; it’s true there were, from time to time, episodes of direct dictatorship, but, after a decade or two, democracy again imposed itself (in South Korea, for example, or Chile). Now, however, the link between democracy and capitalism has been broken.
This doesn’t mean, needless to say, that we should renounce democracy in favour of capitalist progress, but that we should confront the limitations of parliamentary representative democracy. The American journalist Walter Lippmann coined the term ‘manufacturing consent’, later made famous by Chomsky, but Lippmann intended it in a positive way. Like Plato, he saw the public as a great beast or a bewildered herd, floundering in the ‘chaos of local opinions’. The herd, he wrote in Public Opinion (1922), must be governed by ‘a specialised class whose personal interests reach beyond the locality’: an elite class acting to circumvent the primary defect of democracy, which is its inability to bring about the ideal of the ‘omni-competent citizen’. There is no mystery in what Lippmann was saying, it is manifestly true; the mystery is that, knowing it, we continue to play the game. We act as though we were free, not only accepting but even demanding that an invisible injunction tell us what to do and think.
In this sense, in a democracy, the ordinary citizen is effectively a king, but a king in a constitutional democracy, a king whose decisions are merely formal, whose function is to sign measures proposed by the executive. The problem of democratic legitimacy is homologous to the problem of constitutional democracy: how to protect the dignity of the king? How to make it seem that the king effectively decides, when we all know this is not true? What we call the ‘crisis of democracy’ isn’t something that happens when people stop believing in their own power but, on the contrary, when they stop trusting the elites, when they perceive that the throne is empty, that the decision is now theirs. ‘Free elections’ involve a minimal show of politeness when those in power pretend that they do not really hold the power, and ask us to decide freely if we want to grant it to them.
Alain Badiou has proposed a distinction between two types (or rather levels) of corruption in democracy: the first, empirical corruption, is what we usually understand by the term, but the second pertains to the form of democracy per se, and the way it reduces politics to the negotiation of private interests. This distinction becomes visible in the (rare) case of an honest ‘democratic’ politician who, while fighting empirical corruption, nonetheless sustains the formal space of the other sort. (There is, of course, also the opposite case of the empirically corrupted politician who acts on behalf of the dictatorship of Virtue.)
‘If democracy means representation,’ Badiou writes in De quoi Sarkozy est-il le nom?, ‘it is first of all the representation of the general system that bears its forms. In other words: electoral democracy is only representative in so far as it is first of all the consensual representation of capitalism, or of what today has been renamed the “market economy”. This is its underlying corruption.’[*] At the empirical level multi-party liberal democracy ‘represents’ – mirrors, registers, measures – the quantitative dispersal of people’s opinions, what they think about the parties’ proposed programmes and about their candidates etc. However, in a more radical, ‘transcendental’ sense, multi-party liberal democracy ‘represents’ – instantiates – a certain vision of society, politics and the role of the individuals in it. Multi-party liberal democracy ‘represents’ a precise vision of social life in which politics is organised so that parties compete in elections to exert control over the state legislative and executive apparatus. This transcendental frame is never neutral – it privileges certain values and practices – and this becomes palpable in moments of crisis or indifference, when we experience the inability of the democratic system to register what people want or think. In the UK elections of 2005, for example, despite Tony Blair’s growing unpopularity, there was no way for this disaffection to find political expression. Something was obviously very wrong here: it wasn’t that people didn’t know what they wanted, but rather that cynicism, or resignation, prevented them from acting.
There are many versions of last month’s events in Tehran. Some see in the protests the culmination of the pro-Western ‘reform movement’, something along the lines of the colour-coded revolutions in Ukraine and Georgia. They support the protests as a secular reaction to the Khomeini revolution, as the first step towards a new liberal-democratic Iran freed from Muslim fundamentalism. They are countered by sceptics who think that Ahmadinejad actually won, that he is the voice of the majority, while Mousavi’s support comes from the middle classes and their gilded youth. Let’s face facts, they say: in Ahmadinejad, Iran has the president it deserves. Then there are those who dismiss Mousavi as a member of the clerical establishment whose differences from Ahmadinejad are merely cosmetic. He too wants to continue with the atomic energy programme, is against recognising Israel, and when he was prime minister in the repressive years of the war with Iraq enjoyed the full support of Khomeini.
Finally, and saddest of all, are the leftist supporters of Ahmadinejad. What is at stake for them is Iranian freedom from imperialism. Ahmadinejad won because he stood up for the country’s independence, exposed corruption among the elite and used Iran’s oil wealth to boost the incomes of the poor majority. This, we are told, is the true Ahmadinejad: the Holocaust-denying fanatic is a creation of the Western media. In this view, what’s been happening in Iran is a repetition of the 1953 overthrow of Mossadegh – a coup, financed by the West, against the legitimate premier. This not only ignores the facts (the high electoral turnout, up from the usual 55 to 85 per cent, can be explained only as a protest vote), it also assumes, patronisingly, that Ahmadinejad is good enough for the backward Iranians: they aren’t yet sufficiently mature to be ruled by a secular left.
Opposed to one another though they are, all these versions read the Iranian protests as a conflict between Islamic hardliners and pro-Western liberal reformists. That is why they find it so difficult to locate Mousavi: is he a Western-backed reformer who wants to increase people’s freedom and introduce a market economy, or a member of the clerical establishment whose victory wouldn’t significantly change the nature of the regime? Either way, the true nature of the protests is being missed.
The green colours adopted by the Mousavi supporters and the cries of ‘Allahu akbar!’ that resonated from the roofs of Tehran in the evening darkness suggested that the protesters saw themselves as returning to the roots of the 1979 Khomeini revolution, and cancelling out the corruption that followed it. This was evident in the way the crowds behaved: the emphatic unity of the people, their creative self-organisation and improvised forms of protest, the unique mixture of spontaneity and discipline. Picture the march: thousands of men and women demonstrating in complete silence. This was a genuine popular uprising on the part of the deceived partisans of the Khomeini revolution. We should contrast the events in Iran with the US intervention in Iraq: an assertion of popular will on the one hand, a foreign imposition of democracy on the other. The events in Iran can also be read as a comment on the platitudes of Obama’s Cairo speech, which focused on the dialogue between religions: no, we don’t need a dialogue between religions (or civilisations), we need a bond of political solidarity between those who struggle for justice in Muslim countries and those who participate in the same struggle elsewhere.
Two crucial observations follow. First, Ahmadinejad is not the hero of the Islamist poor, but a corrupt Islamofascist populist, a kind of Iranian Berlusconi whose mixture of clownish posturing and ruthless power politics is causing unease even among the ayatollahs. His demagogic distribution of crumbs to the poor shouldn’t deceive us: he has the backing not only of the organs of police repression and a very Westernised PR apparatus. He is also supported by a powerful new class of Iranians who have become rich thanks to the regime’s corruption – the Revolutionary Guard is not a working-class militia, but a mega-corporation, the most powerful centre of wealth in the country.
Second, we have to draw a clear distinction between the two main candidates opposed to Ahmadinejad, Mehdi Karroubi and Mousavi. Karroubi is, effectively, a reformist, a proponent of an Iranian version of identity politics, promising favours to particular groups of every kind. Mousavi is something entirely different: he stands for the resuscitation of the popular dream that sustained the Khomeini revolution. It was a utopian dream, but one can’t deny the genuinely utopian aspect of what was so much more than a hardline Islamist takeover. Now is the time to remember the effervescence that followed the revolution, the explosion of political and social creativity, organisational experiments and debates among students and ordinary people. That this explosion had to be stifled demonstrates that the revolution was an authentic political event, an opening that unleashed altogether new forces of social transformation: a moment in which ‘everything seemed possible.’ What followed was a gradual closing-down of possibilities as the Islamic establishment took political control. To put it in Freudian terms, today’s protest movement is the ‘return of the repressed’ of the Khomeini revolution.
What all this means is that there is a genuinely liberatory potential in Islam: we don’t have to go back to the tenth century to find a ‘good’ Islam, we have it right here, in front of us. The future is uncertain – the popular explosion has been contained, and the regime will regain ground. However, it will no longer be seen the same way: it will be just one more corrupt authoritarian government. Ayatollah Khamenei will lose whatever remained of his status as a principled spiritual leader elevated above the fray and appear as what he is – one opportunistic politician among many. But whatever the outcome, it is vital to keep in mind that we have witnessed a great emancipatory event which doesn’t fit within the frame of a struggle between pro-Western liberals and anti-Western fundamentalists. If we don’t see this, if as a consequence of our cynical pragmatism, we have lost the capacity to recognise the promise of emancipation, we in the West will have entered a post-democratic era, ready for our own Ahmadinejads. Italians already know his name: Berlusconi. Others are waiting in line.
Is there a link between Ahmadinejad and Berlusconi? Isn’t it preposterous even to compare Ahmadinejad with a democratically elected Western leader? Unfortunately, it isn’t: the two are part of the same global process. If there is one person to whom monuments will be built a hundred years from now, Peter Sloterdijk once remarked, it is Lee Kuan Yew, the Singaporean leader who thought up and put into practice a ‘capitalism with Asian values’. The virus of authoritarian capitalism is slowly but surely spreading around the globe. Deng Xiaoping praised Singapore as the model that all of China should follow. Until now, capitalism has always seemed to be inextricably linked with democracy; it’s true there were, from time to time, episodes of direct dictatorship, but, after a decade or two, democracy again imposed itself (in South Korea, for example, or Chile). Now, however, the link between democracy and capitalism has been broken.
This doesn’t mean, needless to say, that we should renounce democracy in favour of capitalist progress, but that we should confront the limitations of parliamentary representative democracy. The American journalist Walter Lippmann coined the term ‘manufacturing consent’, later made famous by Chomsky, but Lippmann intended it in a positive way. Like Plato, he saw the public as a great beast or a bewildered herd, floundering in the ‘chaos of local opinions’. The herd, he wrote in Public Opinion (1922), must be governed by ‘a specialised class whose personal interests reach beyond the locality’: an elite class acting to circumvent the primary defect of democracy, which is its inability to bring about the ideal of the ‘omni-competent citizen’. There is no mystery in what Lippmann was saying, it is manifestly true; the mystery is that, knowing it, we continue to play the game. We act as though we were free, not only accepting but even demanding that an invisible injunction tell us what to do and think.
In this sense, in a democracy, the ordinary citizen is effectively a king, but a king in a constitutional democracy, a king whose decisions are merely formal, whose function is to sign measures proposed by the executive. The problem of democratic legitimacy is homologous to the problem of constitutional democracy: how to protect the dignity of the king? How to make it seem that the king effectively decides, when we all know this is not true? What we call the ‘crisis of democracy’ isn’t something that happens when people stop believing in their own power but, on the contrary, when they stop trusting the elites, when they perceive that the throne is empty, that the decision is now theirs. ‘Free elections’ involve a minimal show of politeness when those in power pretend that they do not really hold the power, and ask us to decide freely if we want to grant it to them.
Alain Badiou has proposed a distinction between two types (or rather levels) of corruption in democracy: the first, empirical corruption, is what we usually understand by the term, but the second pertains to the form of democracy per se, and the way it reduces politics to the negotiation of private interests. This distinction becomes visible in the (rare) case of an honest ‘democratic’ politician who, while fighting empirical corruption, nonetheless sustains the formal space of the other sort. (There is, of course, also the opposite case of the empirically corrupted politician who acts on behalf of the dictatorship of Virtue.)
‘If democracy means representation,’ Badiou writes in De quoi Sarkozy est-il le nom?, ‘it is first of all the representation of the general system that bears its forms. In other words: electoral democracy is only representative in so far as it is first of all the consensual representation of capitalism, or of what today has been renamed the “market economy”. This is its underlying corruption.’[*] At the empirical level multi-party liberal democracy ‘represents’ – mirrors, registers, measures – the quantitative dispersal of people’s opinions, what they think about the parties’ proposed programmes and about their candidates etc. However, in a more radical, ‘transcendental’ sense, multi-party liberal democracy ‘represents’ – instantiates – a certain vision of society, politics and the role of the individuals in it. Multi-party liberal democracy ‘represents’ a precise vision of social life in which politics is organised so that parties compete in elections to exert control over the state legislative and executive apparatus. This transcendental frame is never neutral – it privileges certain values and practices – and this becomes palpable in moments of crisis or indifference, when we experience the inability of the democratic system to register what people want or think. In the UK elections of 2005, for example, despite Tony Blair’s growing unpopularity, there was no way for this disaffection to find political expression. Something was obviously very wrong here: it wasn’t that people didn’t know what they wanted, but rather that cynicism, or resignation, prevented them from acting.
In realtà, era la mancanza di candidati alternativi che impediva loro di agire; dovavano scegliere tra una destra moderna (Labour) e una destra antica (conservatori).
This is not to say that democratic elections should be despised; the point is only to insist that they are not in themselves an indication of the true state of affairs; as a rule, they tend to reflect the predominant doxa. Take an unproblematic example: France in 1940. Even Jacques Duclos, the number two in the French Communist Party, admitted that if, at that point in time, free elections had been held in France, Marshal Pétain would have won with 90 per cent of the vote. When De Gaulle refused to acknowledge France’s capitulation and continued to resist, he claimed that only he, and not the Vichy regime, spoke on behalf of the true France (not, note, on behalf of the ‘majority of the French’). He was claiming to be speaking the truth even if it had no democratic legitimacy and was clearly opposed to the opinion of the majority of the French people. There can be democratic elections which enact a moment of truth: elections in which, against its sceptical-cynical inertia, the majority momentarily ‘awakens’ and votes against the hegemonic opinion; however, that such elections are so exceptional shows that they are not as such a medium of truth.
It is democracy’s authentic potential that is losing ground with the rise of authoritarian capitalism, whose tentacles are coming closer and closer to the West. The change always takes place in accordance with a country’s values: Putin’s capitalism with ‘Russian values’ (the brutal display of power), Berlusconi’s capitalism with ‘Italian values’ (comical posturing). Both Putin and Berlusconi rule in democracies which are gradually being reduced to an empty shell, and, in spite of the rapidly worsening economic situation, they both enjoy popular support (more than two-thirds of the electorate). No wonder they are personal friends: each of them has a habit of ‘spontaneous’ outbursts (which, in Putin’s case, are prepared in advance in conformity with the Russian ‘national character’). From time to time, Putin likes to use a dirty word or utter an obscene threat. When, a couple of years ago, a Western journalist asked him an awkward question about Chechnya, Putin snapped back that, if the man wasn’t yet circumcised, he was cordially invited to Moscow, where they have excellent surgeons who would cut a little more radically than usual.
Berlusconi is a significant figure, and Italy an experimental laboratory where our future is being worked out. If our political choice is between permissive-liberal technocratism and fundamentalist populism, Berlusconi’s great achievement has been to reconcile the two, to embody both at the same time. It is arguably this combination which makes him unbeatable, at least in the near future: the remains of the Italian ‘left’ are now resigned to him as their fate. This is perhaps the saddest aspect of his reign: his democracy is a democracy of those who win by default, who rule through cynical demoralisation.
Berlusconi acts more and more shamelessly: not only ignoring or neutralising legal investigations into his private business interests, but behaving in such a way as to undermine his dignity as head of state. The dignity of classical politics stems from its elevation above the play of particular interests in civil society: politics is ‘alienated’ from civil society, it presents itself as the ideal sphere of the citoyen in contrast to the conflict of selfish interests that characterise the bourgeois. Berlusconi has effectively abolished this alienation: in today’s Italy, state power is directly exerted by the bourgeois, who openly exploits it as a means to protect his own economic interest, and who parades his personal life as if he were taking part in a reality TV show.
La cosa è tanto più vera, in quanto - la cosa viene accuratamente mascherata - gli atteggiamenti clowneschi nascondono l'accaparramento e la razzia dei beni pubblici - attraverso gli appalti, il ricoprimento di cariche
In Italia, e la cosa può non apparire evidente a un osservatore straniero, la borghesia in senso classico è in veloce ritirata esattamente come la sinistra: quello che era il sistema di tangentopoli si è per così dire istituzionalizzato, e si è formata una "casta" costituita da politici che vivono di politica - e Berlusconi, in fondo, che ha ripianato i debiti delle sue aziende ope legis, in fondo ne fa parte - da imprenditori che vivono di appalti pubblici pilotati - e non si tratta certo solo delle imprese pilotate dalla mafia al sud - da evasori fiscali, che utilizzano le risorse pubbliche (strade, rete telefonica) senza pagarle, e che di fatto, quindi, ricevono un immenso sussidio dallo stato. Si ha insomma una borghesia parassitaria che vive rapinando le risorse pubbliche - esattamente come in Russia.
The last tragic US president was Richard Nixon: he was a crook, but a crook who fell victim to the gap between his ideals and ambitions on the one hand, and political realities on the other. With Ronald Reagan (and Carlos Menem in Argentina), a different figure entered the stage, a ‘Teflon’ president no longer expected to stick to his electoral programme, and therefore impervious to factual criticism (remember how Reagan’s popularity went up after every public appearance, as journalists enumerated his mistakes). This new presidential type mixes ‘spontaneous’ outbursts with ruthless manipulation.
The wager behind Berlusconi’s vulgarities is that the people will identify with him as embodying the mythic image of the average Italian: I am one of you, a little bit corrupt, in trouble with the law, in trouble with my wife because I’m attracted to other women. Even his grandiose enactment of the role of the noble politician, il cavaliere, is more like an operatic poor man’s dream of greatness. Yet we shouldn’t be fooled: behind the clownish mask there is a state power that functions with ruthless efficiency. Perhaps by laughing at Berlusconi we are already playing his game. A technocratic economic administration combined with a clownish façade does not suffice, however: something more is needed. That something is fear, and here Berlusconi’s two-headed dragon enters: immigrants and ‘communists’ (Berlusconi’s generic name for anyone who attacks him, including the Economist).
Kung Fu Panda, the 2008 cartoon hit, provides the basic co-ordinates for understanding the ideological situation I have been describing. The fat panda dreams of becoming a kung fu warrior. He is chosen by blind chance (beneath which lurks the hand of destiny, of course), to be the hero to save his city, and succeeds. But the film’s pseudo-Oriental spiritualism is constantly undermined by a cynical humour. The surprise is that this continuous making-fun-of-itself makes it no less spiritual: the film ultimately takes the butt of its endless jokes seriously. A well-known anecdote about Niels Bohr illustrates the same idea. Surprised at seeing a horseshoe above the door of Bohr’s country house, a visiting scientist said he didn’t believe that horseshoes kept evil spirits out of the house, to which Bohr answered: ‘Neither do I; I have it there because I was told that it works just as well if one doesn’t believe in it!’ This is how ideology functions today: nobody takes democracy or justice seriously, we are all aware that they are corrupt, but we practise them anyway because we assume they work even if we don’t believe in them. Berlusconi is our own Kung Fu Panda. As the Marx Brothers might have put it, ‘this man may look like a corrupt idiot and act like a corrupt idiot, but don’t let that deceive you – he is a corrupt idiot.’
To get a glimpse of the reality beneath this deception, call to mind the events of July 2008, when the Italian government proclaimed a state of emergency in the whole of Italy as a response to the illegal entry of immigrants from North Africa and Eastern Europe. At the beginning of August, it made a show of deploying 4000 armed soldiers to control sensitive points in big cities (train stations, commercial centres and so on.) A state of emergency was introduced without any great fuss: life was to go on as normal. Is this not the state we are approaching in developed countries all around the world, where this or that form of emergency (against the terrorist threat, against immigrants) is simply accepted as a measure necessary to guarantee the normal run of things?
What is the reality of this state of emergency? On 7 August 2007, a crew of seven Tunisian fishermen dropped anchor 30 miles south of the island of Lampedusa off Sicily. Awakened by screams, they saw a rubber boat crammed with starving people – 44 African migrants, as it turned out – on the point of sinking. The captain decided to bring them to the nearest port, at Lampedusa, where his entire crew was arrested. On 20 September, the fishermen went on trial in Sicily for the crime of ‘aiding and abetting illegal immigration’. If convicted, they would get between one and 15 years in jail. Everyone agreed that the real point of this absurd trial was to dissuade other boats from doing the same: no action was taken against other fishermen who, when they found themselves in similar situations, apparently beat the migrants away with sticks, leaving them to drown. What the incident demonstrates is that Agamben’s notion of homo sacer – the figure excluded from the civil order, who can be killed with impunity – is being realised not only in the US war on terror, but also in Europe, the supposed bastion of human rights and humanitarianism.
The formula of ‘reasonable anti-semitism’ was best formulated in 1938 by Robert Brasillach, who saw himself as a ‘moderate’ anti-semite:
We grant ourselves permission to applaud Charlie Chaplin, a half Jew, at the movies; to admire Proust, a half Jew; to applaud Yehudi Menuhin, a Jew; and the voice of Hitler is carried over radio waves named after the Jew Hertz . . . We don’t want to kill anyone, we don’t want to organise any pogroms. But we also think that the best way to hinder the always unpredictable actions of instinctual anti-semitism is to organise a reasonable anti-semitism.
Our governments righteously reject populist racism as ‘unreasonable’ by our democratic standards, and instead endorse ‘reasonably’ racist protective measures. ‘We grant ourselves permission to applaud African and Eastern European sportsmen, Asian doctors, Indian software programmers,’ today’s Brasillachs, some of them social democrats, are telling us. ‘We don’t want to kill anyone, we don’t want to organise any pogroms. But we also think that the best way to hinder the always unpredictable, violent actions of the instinctual anti-immigrant is to organise reasonable anti-immigrant protection.’ A clear passage from direct barbarism to Berlusconian barbarism with a human face.
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