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martedì 5 gennaio 2010

Superclass


Exceptionnellement, je présent un article de Giorgio Ruffolo (L'Espresso 28 settembre 2008) qui décrit bien la situation économique et politique actuelle.


Fino a qualche tempo fa l'attenzione degli economisti era attratta dalla estensione della povertà. Da qualche tempo, l'interesse si è spostato invece sui ricchi. Anzi, sui ricchissimi. Non è voyeurismo. Si tratta di sapere in che tipo di società viviamo e come si esce dalla situazione attuale della crisi del capitalismo. Il posto occupato dai ricchissimi non ha molto a che fare con tutto ciò. Uno dei lavori più recensiti, in America, è quello di David Rothkopf, personaggio eminente sia nel campo degli studi socia­li, sia, soprattutto, negli ambienti politici, È stato vicino a Clinton e a Rockefeller. Il suo ultimo libro, "Superclass" (Mondadori), continua a fare rumore, anche perché è con super ricchi (dice che sono seimila circa), i protagonisti del suo testo, che chi oggi pensa di rifondare il capitalismo, dovrà fare i conti. Rothkopf li incontra a Davos, dove si aggirano le ombre della montagna incantata di Thomas Mann: il fascino della signora Chauchat, la pudica malinconia di Hans Castorp. Ce li presenta in uno di quei mondanissimi convegni annuali che sembrano (sembravano) dare indirizzo e razionalità alla globalizzazione. (...). C'è una una sola fede: incrollabile, come quella dei templari, o dei massoni, la fede nel supercapitalismo, liberato da ogni vincolo nazionale e da ogni preoccupazione sociale. Ciò che distingue il nostro tempo infatti non è resistenza di élites nazionali, ma la presenza di una élite sciolta da legami di terra e di sangue, librata in una "candida rosa" al di sopra dei governi, degli Stati, delle nazioni. Una élite vera, nel senso della capacità di governo? E lecito nutrire qualche dubbio, dal momento che fino a poco fa molti di loro, alla testa di banche, erano ignari della spazzatura che si era accumulata nei loro forzieri. Viene il dubbio che non si tratti di una élite e di un governo mondiale ma di un ceto di mandarini privilegiati e irresponsabili: una "schiuma". I loro stipendi eguagliano i redditi di intere nazioni. Non si dovrebbero neppure chiamare stipendi perché non appartengono alla categoria del lavoro e neppure a quella del capitale, ma della rendita (di posizione). Un giorno si dovrà fare il bilancio di quanto è costato alla comunità mondiale questo capitalismo finanziario che ha generato questa plutocrazia irresponsabile. Si dovrà fare il confronto tra il capitalismo regolato degli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni del compromesso socialdemocratico, l'età dell'oro, quando una forte crescita si accompagnava con la riduzione delle disuguaglianze; e il capitalismo finanziario generato tra la fine degli anni Settanta e rinizio degli Ottanta dalla decisione strategica del duo Thatcher-Reagan, di liberalizzare i movimenti di capitale. Sono queste le decisioni di governo, non le conferenze di Davos, che hanno segnato la mercatizzazione mondiale dello spazio (globalizzazione) e del tempo (finanziarizzazione). Il fallimento del mercato non si rivela infatti nelle Borse che vanno a picco ma nell'incapacità di generare una economia sostenibile ambientalmente ed equa socialmente. Ma è un fallimento che mette a rischio anche la democrazia. E forse è questa la vera sfida del prossimo futuro. Stiamo parlando dell'aumento della potenza delle corporation rispetto agli Stati nazionali. Nel 2007 il prodotto lordo mondiale era stimato in 47 trilioni di dollari. Le vendite delle prime 250 imprese multinazionali ammontavano a 15 trilioni. Di quelle 250 macroimprese le prime cinque contavano più del prodotto totale di duecento Stati del mondo. Prendiamo gli Stati con più di 50 miliardi di dollari di prodotto nazionale lordo e le imprese con più di 50 miliardi di dollari di vendite. I primi sono 60, le altre 166. Come indici approssimativi del loro potere mondiale le cifre parlano chiaro. La potenza del mondo si concentra in pochi soggetti privati, politicamente irresponsabili; ma decisivi quanto alla selezione dei candidati alle elezioni dei paesi democraticatici. Qui si innesta l'aspetto decisivo dello slittamento dai potere dagli Stati alle corporation: non solo l'enorme flusso di denaro che da queste si riversa sulla classe politica nelle forme del finanziamen­to illegale, ma sempre più in quelle ormai aperte dei giganteschi contributi eletto­rali. Quello che era una vol­ta il mercato furtivo delle tangenti è diventato l'acqui­sto all'ingrosso dei candidati e dei partiti in occasione delle contribuzioni alle ele­zioni presidenziali e parla­mentari, perfettamente legali. All'afflusso del denaro si aggiunge la pressione lobbistica. Dal 1975 al 2005 il numero dei lobbisti registrato a Washington è passato da 3.400 a 33.000. Nel 2005 gli uffici della Commissione europea di Bruxelles ospitavano diecimila lobbisti. E le pressioni non hanno bisogno di essere esercitate illegalmente, perché ogni atto politico, anche il più banale, come un appuntamento, ha un prezzo di mercato. (...). La pubblicità è il più formidabile strumento in mano alle grandi corpora­tion per sostenere il loro potere. È uno stru­mento sostanzialmente politico, in quanto comanda l'allocazione delle risorse attra­verso l'asimmetria dell'informazione. L'ammontare mondiale delle spese pubblicitarie è stimato in oltre 500 miliardi di dollari, circa l’1,3 % del prodotto lordo mondiale, e più di sette volte la spesa de­stinata alla ricerca sanitaria (70 miliardi di dollari). Maggiore del budget militare degli Stati Uniti (425 miliardi di dollari). (...) Ma che cosa re­sta della democrazia, se i poteri irresponsa­bili delle multinazionali surclassano gli Stati nel controllo delle risorse; se sono in grado di controllare le fonti delle decisioni po­litiche attraverso il lobbismo sistematico; se sono in grado di orientare i flussi della domanda verso la loro offerta di beni (e di mali) privati, deprimendo l'offerta di beni sociali? Lo spazio delle decisioni basate sulla partecipazione e sul consenso dei cittadini si restringe implacabilmente, mentre si amplia quello basato sulle decisioni di consumo largamente influenzate dalle scelte di investimento delle grandi corporation. A Davos, in quella montagna disincantata, non c'è più traccia dellajpudica malinconia di Hans Castorp e del sorriso affascinante della signora Chauchat. C'è solo il vocìo profano dei ricchissimi che si complimentano rassicurandosi reciprocamente. Fino a che qualcuno non oserà a sfidarli.

venerdì 3 ottobre 2008

Legge

I comunisti – e mi ci metto anche io – hanno sempre pensato che le leggi servono a sancire la prevaricazione dei potenti sui deboli - e che quindi è giusto violarle. Spessissimo è così - basti pensare alle leggi di segregazione razziale sudafricane e del sud degli Stati Uniti – ma la legge è nata esattamente per il motivo opposto: le prime vere leggi – i greci non avevano un vero diritto, per esempio le tavole di Gortina, una raccolta di leggi che ci è stata fortunosamente conservata, riguardano quasi solamente il diritto matrimoniale – furono imposte dalla plebe romana contro l’arroganza dell’aristocrazia (il senato). Generalizzando, una legge giusta è una legge contro i prepotenti, mentre una legge iniqua è una legge che sancisce la prepotenza – al dilemma di Antigone si potrebbe rispondere semplicemente questo – e una legge superflua, e quindi tendenzialmente iniqua, è una legge che si occupa di ciò che non riguarda i prepotenti. Il prepotente può essere un bullo, un gradasso ignorante che ti taglia la strada in macchina, così come un sofisticato broker che specula sui tuoi risparmi, non fa molta differenza. Oggi si parla di “legalità” invece che di legge (di diritto oggettivo), ovvero non ci si chiede più se una legge sia giusta o ingiusta, ma solo se sia stata emanata da un governo legittimo. Se si fosse capito che distinguere tra legge giusta e legge ingiusta è molto più semplice di quello che si pensa, non saremmo a questo – guarda che ti combina una conoscenza confusa della storia politica romana. Il fatto che la legge serve solo a combattere i prepotenti corrisponde esattamente al fatto che i cittadini sono uguali di fronte alla legge – se ci sono prepotenti il principio di uguaglianza viene violato. Purtroppo questo principio, lampante per chi viveva ai tempi dell’Ancien Régime, oggi è quanto di più oscuro ci possa essere: 1) in una società multietnica e pluralistica è assai difficile stabilire cosa significa uguaglianza; 2) in fondo la critica dei socialisti al “diritto borghese” consisteva semplicemente nell’osservazione che a nulla serve l’uguaglianza civile se sussistono enormi disuguaglianze economiche; ma il tentativo di livellare il potere economico – sia nella forma del socialismo reale che in quella della socialdemocrazia - palesemente non è riuscito, col risultato che le disuguaglianze di reddito vengono ormai accettate come un fatto naturale, come qualcosa di positivo per la società nel suo complesso (in economia ciò si chiama, o meglio si chiamava prima del cataclisma economico USA, supply side economy), o come il risultato del “merito” dei privilegiati.

Ora, non è che questa formulazione “plebea romana” sia tutta rose e fiori.
1) Una persona che non si lava e mi offende con il suo odore intenso è un prepotente? Qui entra in gioco la tolleranza: posso benissimo sopportare un odore acre, perché vengono offesi solo i miei gusti – mentre colui che mi taglia la strada mi mette in pericolo oggettivo. La tolleranza infatti in nient’altro consiste se non nel non considerare offesa – o per lo meno nel sopportare - quello che offende solamente il mio gusto – un amante del gelato al pistacchio non considera offesa il fatto che qualcuno mangi il gelato alla fragola, mentre, e non c’è differenza sostanziale, alcuni si offendono quando vedono costumi e comportamenti diversi dai loro - ed è infatti strettamente collegata con l’apertura mentale.
2) Quando le risorse sono pubbliche, può diventare lesivo un comportamento che in un sistema privatistico è del tutto indifferente. Se mi ammalo di raffreddore, in un sistema privatistico danneggio solo me stesso, in un sistema pubblico danneggio tutti quelli che usufruiscono del sistema, perché diminuisco le risorse a disposizione; e stabilire che un comportamento è dovuto a causa di forza maggiore (il virus) o a negligenza e quindi a colpa (l’essere andato in giro in magliettina) è problema assai delicato. I rischi per la libertà sono quindi gravissimi. Il problema è più diffuso di quello che si può pensare, riguarda per esempio la sicurezza, che è gestita quasi interamente da strutture pubbliche.

lunedì 29 settembre 2008

crack

Il aurait faillu laisser faillir toutes le banques trop endettées; mais on a eu peur, les Démocratiques aussi, on a sauvé les banques en endossant les couts à l'Etat, et maintenant le sprévision des économistes sont très sombres. Quand une jambe a la cancrène, il faut amputer, ou la cancrène se propage au corp entier.