Visualizzazione post con etichetta militanza. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta militanza. Mostra tutti i post

sabato 13 settembre 2014

Politica e guerra

Uno degli argomenti ricorrenti di questo blogghetto è, ovviamente, Machiavelli. In un post precedente ricordavo che la politica è guerra - di per sé Machiavelli questo non l'ha scoperto, è un dato di fatto - e che quindi in politica bisogna adottare la morale di guerra, non la morale di pace. Dicevo così perché se non si parte dal presupposto della guerra il Principe potrebbe sembrare - come è sembrato a molti -  un elogio del trasformismo o della ragion di stato (come Schmitt), quando è esattamente il contrario. In un altro post distinguevo infatti machiavellici e machiavelliani - Giuliano Ferrara per esempio appartiene a questi ultimi. Non posso non ricordare come la sinistra interpretasse, in ultima analisi, il comunismo come uno stato di mobilitazione, di lotta permanente - non a caso si parlava di militanti, e che i regimi dell'est erano basati su un'organizzazione sostanzialmente militare della società. La libertà si realizza attraverso la guerra (= politica) in cui tutti sono uguali. La borghesia, per contro, è decisamente per l'eliminazione della guerra, della politica e dello stato.

Tuttavia, Machiavelli non ha scritto solo il Principe. Il Principe, anzi, ha la sua occasione nella speranza di rientrare nelle grazie del principe dopo le vicissitudini che avevano portato Machiavelli all'allontanamento dalle carica pubbliche. Machiavelli è anche l'autore del discorso sopra la prima deca di Tito Livio, in cui si interroga su come sia possibile istituire una repubblica di liberi, eguali. e pacifici. Non credo che Machiavelli abbia trovato la risposta, e sembra che non ci sia ancora riuscito nessuno, però questo significa che l'equivalenza politica = guerra - o l'autonomia del politico - sono per Machiavelli solo un punto di partenza , non di arrivo. Forse se i grillini studiassero quest'ultimo libro si costruirebbero una base teorica un po' più solida che il miscuglio di elementi anarchici e della destra americana che sembra guidarli. E sarebbe una base anche un po' più rivoluzionaria.


mercoledì 19 novembre 2008

Guerra e pace


La politica – che in fondo è una guerra incruenta - e la militanza, danno un profondo piacere, simile alla più potente delle droghe. Eppure, dopo un certo tempo, le battaglie vinte e perse, e la passione con cui si sono combattute, cominciano ad apparire come un gioco senza più molto senso. In oriente, quando due guerrieri perfettamente padroni dell’arte marziale si scontrano, viene fuori una danza – in quanto i due guerrieri hanno forza perfettamente pari, e ogni colpo di uno viene schivato dall’altro, ma anche perché la guerra è fondamentalmente una danza.
Tuttavia, quando una cosa che fondamentalmente nasce dal piacere primordiale del sangue si trasforma in una danza astratta, ci si accorge anche che si trattava di una propedeutica verso qualcosa di più profondo – probabilmente il piacere di interagire con gli avversari, che nel momento in cui ci si è stufati della lotta diventano semplicemente gli altri. Molti samurai, dopo una vita di battaglie, si facevano bonzi, non perché pentiti, ma perché le battaglie non erano state altro che un percorso spirituale che laggiù portava e di cui a un certo punto non hanno più avuto bisogno.
Ovviamente, questo percorso spirituale si potrebbe fare partendo da forme incruente. Mi viene in mente il meraviglioso film pacisfista La Grande Illusione di Réné Clair. Di solito i film – e le canzoni – pacifiste fanno vedere quanto è brutta la guerra. Réné Clair è molto più radicale, perché fa vedere quanto è bella; fa vedere il coraggio, le virtù cavalleresche, l’onore, la generosità, la lealtà, il disprezzo per il pericolo, la noncuranza di sé, in una parola l’altruismo che emerge durante la guerra. Nel corso del film – che presenta le storie parallele di due ufficiali provenienti da famiglie aristocratiche e due soldati invece borghesi che a un certo punto fuggiranno dal campo di prigionia - i protagonisti però si accorgono, i due aristocratici, che questi valori in ultima analisi sono traditi dalla guerra, e i due borghesi che il loro compimento non è in guerra, ma in pace – in particolare, quando i due fuggiaschi arrivano da una vedova con una bambina, e le offrono non tanto il loro aiuto quanto la loro solidarietà.

Militanza

Sia i fascisti che i comunisti si pongono come modello il militante. Il militante è uno che milita, cioè fa la guerra; quello che il militante cerca, però, paradossalmente è l’amore, e la guerra – politica o più tradizionale - ha la sola funzione di rappresentare un momento in cui non si dà più importanza a sé stessi ma solamente all’obiettivo che si vuole raggiungere – l’obiettivo amato. Si tratta di fondo di un ideale cavalleresco, in cui l’amore cortese rappresenta il logico completamento dell’ardore guerresco. Esiste però una distinzione fondamentale tra il militante comunista e il militante fascista. Il primo infatti mantiene un sottile diaframma tra sé e l’altro – che mantiene l’individualità di ciascuno - mentre il secondo non ammette diaframma, di modo che l’amore giunge a compimento solo con l’annullamento – con la morte, insomma, simbolica o reale. Temo che dietro questo atteggiamento ci sia una profonda paura della solitudine.