domenica 7 settembre 2008

disintegrazione

Il consueto articolo domenicale di Scalfari di oggi mette in guardia dal rischio di disgregazione, dovuto, a suo parere, all’attivismo di singole individualità che cercano il dialogo personalmente, senza seguire una strategia di partito. E’ significativo che il dibattitto di oggi nella sinistra – amche in quella radicale, in fondo – ruoti tutto intorno al dialogo. In Italia, almeno dalla morte di Moro, ma n gran parte anche prima, il PCI ha governato sostanzialmente insieme alla DC, anche se in un ruolo fortemente subordinato, con la sinistra cosiddetta extraparlamentare – cosiddetta perché alcune piccole frange erano in parlamento – che dietro la parola d’ordine della “rivoluzione” in realtà si opponeva proprio al consociativismo.. Oggi, che quello che è stato chiamato consociativismo non è pù possibile, si sentono orfani. Se fossero riusciti a imporre la propria egemonia sull’Italia – e va notato che Prodi c’è andato vicinissmo due volte, e due volte è stato fermato proprio dal PDS/PD - avrebbero gestito il Paese probabilmente in modo simile alla Toscana e alla Romagna – e qui veniamo a un punto che moltissimi commentatori hanno sottolineato, come, a differenza degli altri Paesi occidentali, dove lo stato è nettamente separato dai partiti, in Italia questi vengano a coincidere, con l’eccezione della presidenza della Repubblica, che non a caso gode di ampi consensi indipendentemente dalla provenienza politica del Presidente. Fondamentalmente questa mancata separazione tra stato e partiti dipende dalla debole idea di istituzione pubblica degli italiani, in gran parte dovuto al fatto che non abbiamo mai avuto la monarchia assoluta come nel resto d’Europa né una società tendenzialmente ugualitaria come quella che ha dato vita alla Costituzione americana – ma soprattutto al fatto che i due maggiori partiti non si fidavano l’uno dell’altro – forse a ragione – e non hanno mai consentito che sorgessero istituzioni che non fossero rigidamente controllate bilateralmente dai due partiti principali, o attraverso una spartizione di aree territoriali (Toscana contro Veneto eccetera). Oggi, com’è come non è, la separazione tra istituzione e partiti viene richiesa – una delle tante vittorie di Pannella – e la destra ha vinto soprattutto perché è più estranea alla gestione della cosa pubblica della sinistra. Scalfari distingue, nel suo articolo, “dialogo” e “confronto”, e vuol dire proprio questa cosa. Ovviamente, le idee del popolo italiano sono assai confuse – confusione che forse la destra non ha poi tutto questo interesse a dissipare: chiedono lo stato di diritto, e lo chiamano “legalità”; chiedono che il pubblico impiego sia al servizio dei cittadini, e non al servizio di sé stesso, e lo confondono con la lotta ai “fannulloni”; chiedono che gli appalti pubblici siano trasparenti – usiamo ques’eufemismo – e credono che la via di uscita sia non pagare le tasse, legalmente (ICI) o illegalmente.
Agli italiani farebbe bene un bel servizio militare all’estero; conoscerebbero altre realtà, e diventerebbero, come Totò, che aveva fatto il militare a Cuneo, “uomini di mondo”.

Ovviamente non ho la più pallida idea di come si possa riorganizzare la politica italiana; l’unica riflessione che mi viene in mente è che non abbiamo ancora deciso se avere dei partiti all’americana o all’europea, un partito democratico o uno laburista – per ora abbiamo un partiti alla thailandese – mi perdonino gli amici thailandesi, che fino a qualche tempo fa sembravano i nostri sosia, ma ultimamente stanno dimostrando di essere molto migliori e più consapevoli di noi. Un altro punto che mi viene in mente è che due generazioni quasi di persone – dal 1968 in poi – sono state escluse dalla politica – anche dall’università, per dire – in parte perché i maggiorenti hanno fatto entrare solo i fedelissimi, in parte per autoesclusione.

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