lunedì 29 luglio 2013

Caterina va in città


Ho visto in televisione  “Caterina va in città” di Virzì. Il film racconta di una famiglia di paese che si trasferisce a Roma. Il padre,  infantile e con velleità di ascesa sociale, iscrive la figlia Caterina a un prestigioso liceo del centro. Caterina diventa amica della figlia di un importante scrittore di sinistra e successivamente della figlia di un sottosegretario fascista. Il padre spera di realizzare la sua scalata sociale tramite queste due famiglie ma ovviamente fallisce. Il film vorrebbe essere una fotografia della realtà italiana dei primi anni del berlusconismo, però è confuso e non aiuta a capire. L’Italia è realmente un Paese estremamente classista, ma temo che gli autori pensino che sia un problema universale, e non sospettino che l’estrema ingiustizia sociale ed economica italiane sono un unicum in Europa continentale, e ci avvicinano invece ai Paesi anglosassoni. Non parlo della Svezia o della Germania, parlo anche di paesei mediterranei, in cui le disuguaglianze di reddito e di classe sono molto minori che in Italia. E questo certo è dovuto alle inadeguatezze della politica, ma soprattutt, ahimé, al fatto che le masse, in larghissima parte, invece di chiedere diritti – come nel resto d’Europa - hanno chiesto “aiutini”. Come il padre di Caterina, che conclude, dopo il fallimento della sua questua, che la società è immodificabile. Come se non esistessero altri e più efficaci modi per modificarla, come se il film non avesse potuto concludersi con almeno uno dei tre della famiglia che in un sussulto di dignità dice ai privilegiati : “ma chi vi vuole”. I ricchi sono ricchi e si comportano da ricchi, ma non sta scritto da nessuna parte che i poveri debbano comportarsi da accattoni. Ma anche questa semplice costatazione sembra mancare al regista.



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