lunedì 24 agosto 2009

tempo


Consiglio a tutti il libro di Elena Esposito “il futuro dei futures”. Era tantissimo che non leggevo qualcunio che dicesse qualcosa di nuovo. La riflessione dell’autrice (che sa iltedesco, e la cosa non è irrilevante) parte da futures e derivati. Va di moda dire che si trattava di un’economia irreale e che bisogna tornare all’economia reale. Però milioni di persone sono rimaste senza una casa e ora vivono in tende e roulottes: tanto irreale, quell’economia, non doveva essere. Esposito ha capito una cosa che era addirittura ovvia: che il denaro è tempo. In particolare, un imprenditore non è, come pensava Marx, uno che impianta una fabbrica, ma uno che prende soldi in prestito, cioè prende la ricchezza che non ha dal futuro, e la trasferisce nel presente dove quella ricchezza ancora non c’è, esattamente come il mercante veneziano prendeva le spezie da lontano e le portava in Europa dove non c’erano. Dato che nulla si crea e nulla si distrugge, tuttavia, quello che è stato preso dal futuro deve essere ripagato con la produzione attuale – quando questo non avviene si hanno le crisi, e questa seconda parte Marx l’ha spiegata meglio di chiunque altro.
Del resto, a parte l’espressione “il tempo è denaro”, a parte che nella teeoria marxiana non è il lavoro, ma il tempo di lavoro che basa il valore, i soldi non sono altro che dei pagherò: i soldi in senso moderno – cioè non come semplice numerario, per usare il termine marxiano – sono stati inventati dai banchieri toscani, che emettevano dei pagherò: tu ora mi dai 10 tese di stoffa, in futuro ti pagherò l’equivalente in oro. Da quel momento, ci siamo messi a commerciare il nostro tempo, e come giustamente sottolineato da Esposito, il tempo è diventata la nostra ossessione e la nostra prigione. Dato che ogni euro che percepiamo è sostanzialmente un debito, abbiamo paura di non riuscire a ripagare tutto prima di morire, col risultato che abbiamo un terrore della morte sconsociuto ad altre epoche, terrore che è il tema di un buon numero di artisti contemporanei (primo fra tutto, Damien Hirst).
Fin qui, Esposito non ha scoperto nulla di nuovo – anche se spesso non c’è nulla di più nuovo, soprendente e sconosciuto delle cose che si sanno già – dove la sua analisi diventa interessante è nel tentativo di capire la natura del tempo. Si tratta di un problema su cui si sono arrovellati filosofi e scienziati per millenni, senza riuscire a dare una definizione minimamente convincente. Esposito prende sul serio i derivati – che sono sostanzialmente assicurazioni contro i rischi – e individua la natura del tempo nella sua incertezza. E’ una visione lontanissima da quella della scienza: per la scienza il tempo è una dimensione paragonabile a quella dello spazio. Kurt Vonnegut immagina una persona che riesca ad andare avanti e indietro nel tempo come riusciamo a fare nello spazio: questa persona può vedere il momento della sua morte. Un universo così è però sostanzialmente statico: posso andare avanti e indietro, ma è un mondo del tutto fermo. Il tempo della scienza è untempo assolutamente reversibile, e il mondo della scienza è come un poliedro, che posso ruotare e spostare, ma che rimane sempre lo stesso – non diversamente dall’universo per la religione, che già esisteva csì come si dipana nella storia nella mente divina. Del resto, un mondo statico è probabilmente l’unico che può essere trattato analiticamente. Del resto, come giustamente sottolinea esposito, la teoria economica tratta un’economia sostanzialmente statica, proprio per renderne possibile la trattazione matematica.Un tempo incerto è invece un tempo aperto alla possibilità. E ci sono due branche della fisica che hanno incorporato l’incertezza (probabilità): la termodinamica e la meccanica quantistica. La seconda legge della termodinamica spiega perché gli eventi vanno in una sola direzione: la cosiddetta “freccia del tempo”; la meccanica quantistica ha portato molti a immaginare un universo che si scompone continuamente in infiniti mondi possibili.
Incidentalmente, il fatto che il tempo incerto è il tempo della possibilità, si può tradurre in termini teologici col fatto che dio cambia, cioè crea anche sé stesso – l’ebraismo era arrivato a qualcosa del genere, e gli scolastici avevano intravvisto il problema con il famoso quesito se dio potesse creare una pietra tanto grande da non poterla sollevare nemmeno lui – quesito che ha senso solo con un dio statico.
Insomma, una visione probabilistica del tempo porta a vedere in un modo completamente diverso il concetto di necessità; i mistici (vedi Dante) hanno sempre identificato libertà e necessità - usando i termini di Monod non esiste differenza tra caso e necessità – facendo sempre attenzione di non scambiare la necessità con la prepotenza e la cattiveria degli uomini. Ma le intuizioni dei mistici non si mangiano: forse invece questo strumento dei derivati, che così male abbiamo usato – puramente per avidità, potrebbe aprire una finestra dalle enormi conseguenze.

domenica 23 agosto 2009

Dopotutto non è brutto


Ho letto “dopotutto non è brutto" di Francesco Bonami. E’ il solito snob, che critica lo snobismo degli snob perché non sono abbastanza snob (mi sono messo a scrivere come lui – non ci vuole niente) – e soprattutto critica quelli che in quello che dicono ci credono. Però ho apprezzato l’invito all'esercizio - difficilissimo - del pluralismo con cui comincia il libro.

sabato 22 agosto 2009

Ara Pacis


Now the debate has a little went down, but the case of Ara Pacis by Meier created even two parties: the left defends the building, whereas the right hates it. The arguments are wether the case is beautiful or bad, or if we should destroy or preserve buildings that are marks of the past, or if the case inserts in the (ugly and chaotic) surroundings; but, strangely, nobody speaks of the Ara Pacis itself. We are all discussing the architectural qualities of the case, but we are indifferent to the fate of the masterpiece that the case should preserve. I recently visited the monument; I'm afraid it pays an original sin: it was placed in that particular position along the Tiber not to present it in its context - it is completely disconnected from the original context now and was disconnected from the context when in the Morpurgo's case - but because Mussolini wanted to present himself as the new Augustus. I would have preferred that, when the Ara Pacis was restored a few years ago, it had been transferred in a museum, for instance in the Capitolini Musea or better in the national Rome Museum. There it could have been put in connection with other pieces of art of the time. Instead, we asked Richard Meier to answer an impossible question, and we are blaming him because he could not solve it.

venerdì 21 agosto 2009

autostima


Acoltavo un lavoratore, credo dell’Alitalia, che descriveva la corruzione imperante nel settore. Stavo per congratularmi, ma mi sono improvvisamente reso conto che non denunciava queste cose per sdegno, ma perché sotto sotto avrebbe voluto far parte anche lui del sistema della corruzione e non poteva. Berlusconi, con un perverso meccanismo psicologico, dà l’impressione alla massa di chi non conta nulla di partecipare all’intreccio politica-affari di cui è garante, come San Gennaro fa credere ai napoletani di essere padroni del proprio destino proprio nel momento il loro destino è nelle mani di eventi imperscrutabili, naturali e politici. Chi critica Berlusconi o San Gennaro, toglie a queste persone l’unico puntello che hanno per non sentirsi nulla. E infatti, la reazione è rabbiosa.
Daniel Pennac, in Chagrin d’Ecole, parla di come fosse un pessimo scolaro. Ai professori appariva un cancre, uno sfrontato, un furbacchione – in realtà, si sentiva un cretino, e più i professori gli davano del cretino, più si confermava quest’opinione di sé stesso. Ne uscì con la severa disciplina del collegio – le difficoltà da superare gli ridiedero fiducia nelle proprie capacità – perché di questo si tratta, fiducia nelle proprie capacità, senza la quale si delega a qualcuno che ci appare migliore di noi – ovviamente, uno in uno stato depressivo come quello descritto si affida solitamente ai lucignoli e ai gatti e le volpi. Noi - e i russi - siamo stati in collegio per più di cinquant'anni - Come ne usciremo?

Andreotti


Molti pensano che Andreotti fosse il capo della mafia. Andreotti non era il capo della mafia, era colui che mediava tra mafia e stato – o meglio, tra mafia, stato per conto della Chiesa. A un certo punto, quando ha capito che la Prima repubblica stava finendo, la mafia ha deciso di mettersi in proprio, e ha reciso in legami con l’entourage andreottiano.

Seconda repubblica


Quando Gorbaciov venne in Italia, un giornalista, intervistato alla televisione, disse che l’Italia aveva gli stessi problemi dell’Unione Sovietica. Oggi quell’osservazione sembra quanto mai vera. La dissoluzione dello stato sovietico ha permesso a una serie di avventurieri di impossessarsi delle risorse del Paese o comunque di farsi spazio nel vuoto. La Russia è un paese in mano alle mafie e a potenti proprietari delle aziende ex pubbliche, qualcosa di simile alla Somalia, in cui ancora non si è ricostituito uno stato organizzato. Queste mafie sono interssate solo ai loro affari, non alla gestione del territorio, cosa che in un certo senso la mafia siciliana ha fatto – pur nel modo barbarico e feudale che conosciamo.Tanto più la società si dissolve, tanto più cresce il consenso per l’atoritarismo di Putin –un autoritarsimo, si badi bene, più recitato che effettivamente esercitato. In Italia, dopo tangentopoli, una vasta categoria di persone ha tvato modo di arricchirsi nella dissoluzione della Repubblica. Si tratta essenzialmente di imprenditori che vivono o di appalt pubblici, o di protezioni da parte dello stato, o di sussidi – l’evasione fiscale costituisce di fatto un sussidio “non statalista” di milioni e milioni di euro ogni anno” – e di politici, che hanno potuto scalare i gradini di un potere che non avevano – si tratta egneralmente di ex portaborse della classe politica precedente – proprio perché garantiscono appalti, protezione e sussidi a questi “imprenditori”. Gian Antonio Stella ha bene individuato nella “casta” il concetto centrale del Paese, ma si è dimenticato che la casta non è quella dei politici, ma quella dellintreccio tra politica e affari – il caso Alitalia ne è l’esempio paradigmatico. In questa situazione di dissoluzione dello stato, cresce il consenso per l’autoritarismo “gentile” di Berlusconi. E come Putin di fatto protegge le mafie, così Berlusconi è il garante di questo intreccio tra politica e affari, legittimato con una costruzione ideologica da clinica psichiatrica a cui il padrone di Mediaset ha lavorato trent’anni, ottenuta mischiando in una mostruosa macedonia concetti presi per lo più da sinistra – dal liberalismo, dal libertarismo, dal socialismo, dal regionalismo anarchico.


La mafia tradizionale si trova oggi in una situazione paradossale. Faceva parte a tutti gli effetti del sistema delal Prima Repubblica; ora, pur avendo contribuito in modo importante alla costruzione della seconda repubblica, credo soprattutto con un contributo finanziario e non politico,– si trova fuori dal sistema. Gli appalti mafiosi, sarebbe interessante fare una statistica, riguardano una quantità di denaro assai più piccola di quella che è girata, per esempio, intorno all’Alitalia. La “casta” politico-imprenditoriale sembra del resto pronta ad accettare un partner con una così immensa liquidità. Dato che per diventare imprenditrice a tutti gli effetti la mafia deve rinunciare alla violenza – l’ha dichiarato e l’ha fatto – la lotta contro gli aspetti violenti e le cosche ancora legate alla violenza – che va benissim ed è utilissima a quella parte della mafia che si vuole “ripulire” - può essere fatta passare facilmente per lotta alla mafia tout court.


Pasolini era profetico quando diceva che il fascismo, nonostante tutto – e per ammissione dello stesso Mussolini – non era minimamente riuscita a fascistizzare l’Italia, mentre perfettamente era riuscito nel compito il consumismo. Gli italiani non sono più il popolo cialtrone ma gentile di una volta – il coatto di periferia, sbrasone ma fondamentalmente buono, è diventato un prepotente fiero di essere prepotente – cioè un fascista. Il berlusconismo nasce dalla dissoluzione della prima repubblica, ma non esisterebbe senza questa “mutazione antropologica”. Se politicamente assomigliamo alla Russia, sociologicamente assomigliamo alla Thailandia di Taiksin, un altro paese in cui il consumismo ha distrutto il tessuto sociale preesistente.

democrazia


IL re del Buthan è quello che meglio ha capito i motivi della superiorità della democrazia. E’ un re saggissimo – come spesso i monarchi orientali –ed è adorato dai buthanesi. Ma un giorno si è chiesto: “e se il mio successore fosse un re corrotto o incapace, cosa succederebbe al mio paese”? e ha cominciato così una serie di riforme democratiche – incontrando lo scontento del popolo, che si trova benissimo con la monarchia. La democrazia funziona infatti non perché il popolo sia meglio del re – la storia è piena di monarchi assoluti saggissimi e devotissimi al loro Paese – quanto perché in una democrazia costituzionale è possibile correggere gli errori, cosa che in un sistema assolutistico o dittatoriale non è possibile o comunque è difficile. Oggi si dice “lo vuole il popolo” come si diceva “Dio lo vuole”. Il problema non è tanto che non esistono né dio né il popolo – il popolo è un insieme di persone, e i momenti più pericoloso sono quelli in cui si sente o lo si fa sentire come un unico organismo. Il problema è che, come tutti, il popolo sbaglia, e sbaglierebbe anche se non fosse imbonito e disorientato dai mass-media. Le procedure costituzionali – un’invenzione romana, incidentalmente – non sono altro che dei meccanismi per correggere gli errori. In altre parole il problema di chi detiene la sovranità è indipendente dal fatto che esistano quelle procedure di controllo che chiamiamo stato di diritto. Gli stati di diritto vengono denominati democrazie liberali, mentre gli stati in cui la sovranità appartiene al popolo, democrazie popolari. L’Unione Sovietica si definiva una democrazia popolare, e in una certa misura aveva ragione; però non esisteva lo stato di diritto. In Gran Bretagna la sovranità appartiene ancora alla regina –meno formalmente di quanto sembri in tempi di pace, e non dimentichiamo inolte che il suffragio unviersale è stato introdotto non prima dell’inizio del ‘900 – eppure vige lo stato di diritto. Nel fascismo non c’è stato di diritto, e la sovranità non appartiene al popolo – anzi, in un certo senso non c’è sovranità.

Zizek-Berlusconi


Di solito non lo sopporto, ma il fatto che stai stato critica da Repubblica è segno certo che ci ha preso, questa volta.


I miei commenti nel testo.


Berlusconi in Tehran


Slavoj Žižek

When an authoritarian regime approaches its final crisis, but before its actual collapse, a mysterious rupture often takes place. All of a sudden, people know the game is up: they simply cease to be afraid. It isn’t just that the regime loses its legitimacy: its exercise of power is now perceived as a panic reaction, a gesture of impotence. Ryszard Kapuściński, in Shah of Shahs, his account of the Khomeini revolution, located the precise moment of this rupture: at a Tehran crossroad, a single demonstrator refused to budge when a policeman shouted at him to move, and the embarrassed policeman withdrew. Within a couple of hours, all Tehran had heard about the incident, and although the streetfighting carried on for weeks, everyone somehow knew it was all over. Is something similar happening now?
There are many versions of last month’s events in Tehran. Some see in the protests the culmination of the pro-Western ‘reform movement’, something along the lines of the colour-coded revolutions in Ukraine and Georgia. They support the protests as a secular reaction to the Khomeini revolution, as the first step towards a new liberal-democratic Iran freed from Muslim fundamentalism. They are countered by sceptics who think that Ahmadinejad actually won, that he is the voice of the majority, while Mousavi’s support comes from the middle classes and their gilded youth. Let’s face facts, they say: in Ahmadinejad, Iran has the president it deserves. Then there are those who dismiss Mousavi as a member of the clerical establishment whose differences from Ahmadinejad are merely cosmetic. He too wants to continue with the atomic energy programme, is against recognising Israel, and when he was prime minister in the repressive years of the war with Iraq enjoyed the full support of Khomeini.
Finally, and saddest of all, are the leftist supporters of Ahmadinejad. What is at stake for them is Iranian freedom from imperialism. Ahmadinejad won because he stood up for the country’s independence, exposed corruption among the elite and used Iran’s oil wealth to boost the incomes of the poor majority. This, we are told, is the true Ahmadinejad: the Holocaust-denying fanatic is a creation of the Western media. In this view, what’s been happening in Iran is a repetition of the 1953 overthrow of Mossadegh – a coup, financed by the West, against the legitimate premier. This not only ignores the facts (the high electoral turnout, up from the usual 55 to 85 per cent, can be explained only as a protest vote), it also assumes, patronisingly, that Ahmadinejad is good enough for the backward Iranians: they aren’t yet sufficiently mature to be ruled by a secular left.
Opposed to one another though they are, all these versions read the Iranian protests as a conflict between Islamic hardliners and pro-Western liberal reformists. That is why they find it so difficult to locate Mousavi: is he a Western-backed reformer who wants to increase people’s freedom and introduce a market economy, or a member of the clerical establishment whose victory wouldn’t significantly change the nature of the regime? Either way, the true nature of the protests is being missed.
The green colours adopted by the Mousavi supporters and the cries of ‘Allahu akbar!’ that resonated from the roofs of Tehran in the evening darkness suggested that the protesters saw themselves as returning to the roots of the 1979 Khomeini revolution, and cancelling out the corruption that followed it. This was evident in the way the crowds behaved: the emphatic unity of the people, their creative self-organisation and improvised forms of protest, the unique mixture of spontaneity and discipline. Picture the march: thousands of men and women demonstrating in complete silence. This was a genuine popular uprising on the part of the deceived partisans of the Khomeini revolution. We should contrast the events in Iran with the US intervention in Iraq: an assertion of popular will on the one hand, a foreign imposition of democracy on the other. The events in Iran can also be read as a comment on the platitudes of Obama’s Cairo speech, which focused on the dialogue between religions: no, we don’t need a dialogue between religions (or civilisations), we need a bond of political solidarity between those who struggle for justice in Muslim countries and those who participate in the same struggle elsewhere.
Two crucial observations follow. First, Ahmadinejad is not the hero of the Islamist poor, but a corrupt Islamofascist populist, a kind of Iranian Berlusconi whose mixture of clownish posturing and ruthless power politics is causing unease even among the ayatollahs. His demagogic distribution of crumbs to the poor shouldn’t deceive us: he has the backing not only of the organs of police repression and a very Westernised PR apparatus. He is also supported by a powerful new class of Iranians who have become rich thanks to the regime’s corruption – the Revolutionary Guard is not a working-class militia, but a mega-corporation, the most powerful centre of wealth in the country.
Second, we have to draw a clear distinction between the two main candidates opposed to Ahmadinejad, Mehdi Karroubi and Mousavi. Karroubi is, effectively, a reformist, a proponent of an Iranian version of identity politics, promising favours to particular groups of every kind. Mousavi is something entirely different: he stands for the resuscitation of the popular dream that sustained the Khomeini revolution. It was a utopian dream, but one can’t deny the genuinely utopian aspect of what was so much more than a hardline Islamist takeover. Now is the time to remember the effervescence that followed the revolution, the explosion of political and social creativity, organisational experiments and debates among students and ordinary people. That this explosion had to be stifled demonstrates that the revolution was an authentic political event, an opening that unleashed altogether new forces of social transformation: a moment in which ‘everything seemed possible.’ What followed was a gradual closing-down of possibilities as the Islamic establishment took political control. To put it in Freudian terms, today’s protest movement is the ‘return of the repressed’ of the Khomeini revolution.
What all this means is that there is a genuinely liberatory potential in Islam: we don’t have to go back to the tenth century to find a ‘good’ Islam, we have it right here, in front of us. The future is uncertain – the popular explosion has been contained, and the regime will regain ground. However, it will no longer be seen the same way: it will be just one more corrupt authoritarian government. Ayatollah Khamenei will lose whatever remained of his status as a principled spiritual leader elevated above the fray and appear as what he is – one opportunistic politician among many. But whatever the outcome, it is vital to keep in mind that we have witnessed a great emancipatory event which doesn’t fit within the frame of a struggle between pro-Western liberals and anti-Western fundamentalists. If we don’t see this, if as a consequence of our cynical pragmatism, we have lost the capacity to recognise the promise of emancipation, we in the West will have entered a post-democratic era, ready for our own Ahmadinejads. Italians already know his name: Berlusconi. Others are waiting in line.
Is there a link between Ahmadinejad and Berlusconi? Isn’t it preposterous even to compare Ahmadinejad with a democratically elected Western leader? Unfortunately, it isn’t: the two are part of the same global process. If there is one person to whom monuments will be built a hundred years from now, Peter Sloterdijk once remarked, it is Lee Kuan Yew, the Singaporean leader who thought up and put into practice a ‘capitalism with Asian values’. The virus of authoritarian capitalism is slowly but surely spreading around the globe. Deng Xiaoping praised Singapore as the model that all of China should follow. Until now, capitalism has always seemed to be inextricably linked with democracy; it’s true there were, from time to time, episodes of direct dictatorship, but, after a decade or two, democracy again imposed itself (in South Korea, for example, or Chile). Now, however, the link between democracy and capitalism has been broken.
This doesn’t mean, needless to say, that we should renounce democracy in favour of capitalist progress, but that we should confront the limitations of parliamentary representative democracy. The American journalist Walter Lippmann coined the term ‘manufacturing consent’, later made famous by Chomsky, but Lippmann intended it in a positive way. Like Plato, he saw the public as a great beast or a bewildered herd, floundering in the ‘chaos of local opinions’. The herd, he wrote in Public Opinion (1922), must be governed by ‘a specialised class whose personal interests reach beyond the locality’: an elite class acting to circumvent the primary defect of democracy, which is its inability to bring about the ideal of the ‘omni-competent citizen’. There is no mystery in what Lippmann was saying, it is manifestly true; the mystery is that, knowing it, we continue to play the game. We act as though we were free, not only accepting but even demanding that an invisible injunction tell us what to do and think.
In this sense, in a democracy, the ordinary citizen is effectively a king, but a king in a constitutional democracy, a king whose decisions are merely formal, whose function is to sign measures proposed by the executive. The problem of democratic legitimacy is homologous to the problem of constitutional democracy: how to protect the dignity of the king? How to make it seem that the king effectively decides, when we all know this is not true? What we call the ‘crisis of democracy’ isn’t something that happens when people stop believing in their own power but, on the contrary, when they stop trusting the elites, when they perceive that the throne is empty, that the decision is now theirs. ‘Free elections’ involve a minimal show of politeness when those in power pretend that they do not really hold the power, and ask us to decide freely if we want to grant it to them.
Alain Badiou has proposed a distinction between two types (or rather levels) of corruption in democracy: the first, empirical corruption, is what we usually understand by the term, but the second pertains to the form of democracy per se, and the way it reduces politics to the negotiation of private interests. This distinction becomes visible in the (rare) case of an honest ‘democratic’ politician who, while fighting empirical corruption, nonetheless sustains the formal space of the other sort. (There is, of course, also the opposite case of the empirically corrupted politician who acts on behalf of the dictatorship of Virtue.)
‘If democracy means representation,’ Badiou writes in De quoi Sarkozy est-il le nom?, ‘it is first of all the representation of the general system that bears its forms. In other words: electoral democracy is only representative in so far as it is first of all the consensual representation of capitalism, or of what today has been renamed the “market economy”. This is its underlying corruption.’[*] At the empirical level multi-party liberal democracy ‘represents’ – mirrors, registers, measures – the quantitative dispersal of people’s opinions, what they think about the parties’ proposed programmes and about their candidates etc. However, in a more radical, ‘transcendental’ sense, multi-party liberal democracy ‘represents’ – instantiates – a certain vision of society, politics and the role of the individuals in it. Multi-party liberal democracy ‘represents’ a precise vision of social life in which politics is organised so that parties compete in elections to exert control over the state legislative and executive apparatus. This transcendental frame is never neutral – it privileges certain values and practices – and this becomes palpable in moments of crisis or indifference, when we experience the inability of the democratic system to register what people want or think. In the UK elections of 2005, for example, despite Tony Blair’s growing unpopularity, there was no way for this disaffection to find political expression. Something was obviously very wrong here: it wasn’t that people didn’t know what they wanted, but rather that cynicism, or resignation, prevented them from acting.
In realtà, era la mancanza di candidati alternativi che impediva loro di agire; dovavano scegliere tra una destra moderna (Labour) e una destra antica (conservatori).

This is not to say that democratic elections should be despised; the point is only to insist that they are not in themselves an indication of the true state of affairs; as a rule, they tend to reflect the predominant doxa. Take an unproblematic example: France in 1940. Even Jacques Duclos, the number two in the French Communist Party, admitted that if, at that point in time, free elections had been held in France, Marshal Pétain would have won with 90 per cent of the vote. When De Gaulle refused to acknowledge France’s capitulation and continued to resist, he claimed that only he, and not the Vichy regime, spoke on behalf of the true France (not, note, on behalf of the ‘majority of the French’). He was claiming to be speaking the truth even if it had no democratic legitimacy and was clearly opposed to the opinion of the majority of the French people. There can be democratic elections which enact a moment of truth: elections in which, against its sceptical-cynical inertia, the majority momentarily ‘awakens’ and votes against the hegemonic opinion; however, that such elections are so exceptional shows that they are not as such a medium of truth.
It is democracy’s authentic potential that is losing ground with the rise of authoritarian capitalism, whose tentacles are coming closer and closer to the West. The change always takes place in accordance with a country’s values: Putin’s capitalism with ‘Russian values’ (the brutal display of power), Berlusconi’s capitalism with ‘Italian values’ (comical posturing). Both Putin and Berlusconi rule in democracies which are gradually being reduced to an empty shell, and, in spite of the rapidly worsening economic situation, they both enjoy popular support (more than two-thirds of the electorate). No wonder they are personal friends: each of them has a habit of ‘spontaneous’ outbursts (which, in Putin’s case, are prepared in advance in conformity with the Russian ‘national character’). From time to time, Putin likes to use a dirty word or utter an obscene threat. When, a couple of years ago, a Western journalist asked him an awkward question about Chechnya, Putin snapped back that, if the man wasn’t yet circumcised, he was cordially invited to Moscow, where they have excellent surgeons who would cut a little more radically than usual.
Berlusconi is a significant figure, and Italy an experimental laboratory where our future is being worked out. If our political choice is between permissive-liberal technocratism and fundamentalist populism, Berlusconi’s great achievement has been to reconcile the two, to embody both at the same time. It is arguably this combination which makes him unbeatable, at least in the near future: the remains of the Italian ‘left’ are now resigned to him as their fate. This is perhaps the saddest aspect of his reign: his democracy is a democracy of those who win by default, who rule through cynical demoralisation.
Berlusconi acts more and more shamelessly: not only ignoring or neutralising legal investigations into his private business interests, but behaving in such a way as to undermine his dignity as head of state. The dignity of classical politics stems from its elevation above the play of particular interests in civil society: politics is ‘alienated’ from civil society, it presents itself as the ideal sphere of the citoyen in contrast to the conflict of selfish interests that characterise the bourgeois. Berlusconi has effectively abolished this alienation: in today’s Italy, state power is directly exerted by the bourgeois, who openly exploits it as a means to protect his own economic interest, and who parades his personal life as if he were taking part in a reality TV show.
La cosa è tanto più vera, in quanto - la cosa viene accuratamente mascherata - gli atteggiamenti clowneschi nascondono l'accaparramento e la razzia dei beni pubblici - attraverso gli appalti, il ricoprimento di cariche
In Italia, e la cosa può non apparire evidente a un osservatore straniero, la borghesia in senso classico è in veloce ritirata esattamente come la sinistra: quello che era il sistema di tangentopoli si è per così dire istituzionalizzato, e si è formata una "casta" costituita da politici che vivono di politica - e Berlusconi, in fondo, che ha ripianato i debiti delle sue aziende ope legis, in fondo ne fa parte - da imprenditori che vivono di appalti pubblici pilotati - e non si tratta certo solo delle imprese pilotate dalla mafia al sud - da evasori fiscali, che utilizzano le risorse pubbliche (strade, rete telefonica) senza pagarle, e che di fatto, quindi, ricevono un immenso sussidio dallo stato. Si ha insomma una borghesia parassitaria che vive rapinando le risorse pubbliche - esattamente come in Russia.

The last tragic US president was Richard Nixon: he was a crook, but a crook who fell victim to the gap between his ideals and ambitions on the one hand, and political realities on the other. With Ronald Reagan (and Carlos Menem in Argentina), a different figure entered the stage, a ‘Teflon’ president no longer expected to stick to his electoral programme, and therefore impervious to factual criticism (remember how Reagan’s popularity went up after every public appearance, as journalists enumerated his mistakes). This new presidential type mixes ‘spontaneous’ outbursts with ruthless manipulation.
The wager behind Berlusconi’s vulgarities is that the people will identify with him as embodying the mythic image of the average Italian: I am one of you, a little bit corrupt, in trouble with the law, in trouble with my wife because I’m attracted to other women. Even his grandiose enactment of the role of the noble politician, il cavaliere, is more like an operatic poor man’s dream of greatness. Yet we shouldn’t be fooled: behind the clownish mask there is a state power that functions with ruthless efficiency. Perhaps by laughing at Berlusconi we are already playing his game. A technocratic economic administration combined with a clownish façade does not suffice, however: something more is needed. That something is fear, and here Berlusconi’s two-headed dragon enters: immigrants and ‘communists’ (Berlusconi’s generic name for anyone who attacks him, including the Economist).
Kung Fu Panda, the 2008 cartoon hit, provides the basic co-ordinates for understanding the ideological situation I have been describing. The fat panda dreams of becoming a kung fu warrior. He is chosen by blind chance (beneath which lurks the hand of destiny, of course), to be the hero to save his city, and succeeds. But the film’s pseudo-Oriental spiritualism is constantly undermined by a cynical humour. The surprise is that this continuous making-fun-of-itself makes it no less spiritual: the film ultimately takes the butt of its endless jokes seriously. A well-known anecdote about Niels Bohr illustrates the same idea. Surprised at seeing a horseshoe above the door of Bohr’s country house, a visiting scientist said he didn’t believe that horseshoes kept evil spirits out of the house, to which Bohr answered: ‘Neither do I; I have it there because I was told that it works just as well if one doesn’t believe in it!’ This is how ideology functions today: nobody takes democracy or justice seriously, we are all aware that they are corrupt, but we practise them anyway because we assume they work even if we don’t believe in them. Berlusconi is our own Kung Fu Panda. As the Marx Brothers might have put it, ‘this man may look like a corrupt idiot and act like a corrupt idiot, but don’t let that deceive you – he is a corrupt idiot.’
To get a glimpse of the reality beneath this deception, call to mind the events of July 2008, when the Italian government proclaimed a state of emergency in the whole of Italy as a response to the illegal entry of immigrants from North Africa and Eastern Europe. At the beginning of August, it made a show of deploying 4000 armed soldiers to control sensitive points in big cities (train stations, commercial centres and so on.) A state of emergency was introduced without any great fuss: life was to go on as normal. Is this not the state we are approaching in developed countries all around the world, where this or that form of emergency (against the terrorist threat, against immigrants) is simply accepted as a measure necessary to guarantee the normal run of things?
What is the reality of this state of emergency? On 7 August 2007, a crew of seven Tunisian fishermen dropped anchor 30 miles south of the island of Lampedusa off Sicily. Awakened by screams, they saw a rubber boat crammed with starving people – 44 African migrants, as it turned out – on the point of sinking. The captain decided to bring them to the nearest port, at Lampedusa, where his entire crew was arrested. On 20 September, the fishermen went on trial in Sicily for the crime of ‘aiding and abetting illegal immigration’. If convicted, they would get between one and 15 years in jail. Everyone agreed that the real point of this absurd trial was to dissuade other boats from doing the same: no action was taken against other fishermen who, when they found themselves in similar situations, apparently beat the migrants away with sticks, leaving them to drown. What the incident demonstrates is that Agamben’s notion of homo sacer – the figure excluded from the civil order, who can be killed with impunity – is being realised not only in the US war on terror, but also in Europe, the supposed bastion of human rights and humanitarianism.
The formula of ‘reasonable anti-semitism’ was best formulated in 1938 by Robert Brasillach, who saw himself as a ‘moderate’ anti-semite:
We grant ourselves permission to applaud Charlie Chaplin, a half Jew, at the movies; to admire Proust, a half Jew; to applaud Yehudi Menuhin, a Jew; and the voice of Hitler is carried over radio waves named after the Jew Hertz . . . We don’t want to kill anyone, we don’t want to organise any pogroms. But we also think that the best way to hinder the always unpredictable actions of instinctual anti-semitism is to organise a reasonable anti-semitism.
Our governments righteously reject populist racism as ‘unreasonable’ by our democratic standards, and instead endorse ‘reasonably’ racist protective measures. ‘We grant ourselves permission to applaud African and Eastern European sportsmen, Asian doctors, Indian software programmers,’ today’s Brasillachs, some of them social democrats, are telling us. ‘We don’t want to kill anyone, we don’t want to organise any pogroms. But we also think that the best way to hinder the always unpredictable, violent actions of the instinctual anti-immigrant is to organise reasonable anti-immigrant protection.’ A clear passage from direct barbarism to Berlusconian barbarism with a human face.
da London revue of Books

mercoledì 19 agosto 2009

Zurich


Sono tornato da una breve vacanza a Zurigo. Mi ha colpito come questa città fosse piena di bellezza - magari manca la sperimentazione, la stazione di Calatrava è più o meno la stessa cosa che si vede in mille città, ma anche gli edifici minori e le opere d'arte nelle piazze più piccole hanno un'altissima qualità estetica. E mi sono ritrovato a pensare che questa bellezza in Italia non esiste più: non solo il territorio è stato coperto da una crosta cementizia orrenda, ma la bruttezza dilaga nei modi e nelle abitudini di quello che in fondo era un popolo gentile.