Ho visto in televisione “Caterina va in città” di
Virzì. Il film racconta di una famiglia di paese che si trasferisce a Roma. Il
padre, infantile e con velleità di ascesa sociale, iscrive
la figlia Caterina a un prestigioso liceo del centro. Caterina diventa amica
della figlia di un importante scrittore di sinistra e successivamente della
figlia di un sottosegretario fascista. Il padre spera di realizzare la sua
scalata sociale tramite queste due famiglie ma ovviamente fallisce. Il film vorrebbe essere una fotografia della realtà italiana dei primi anni del berlusconismo, però è confuso e non aiuta a capire. L’Italia è realmente un Paese
estremamente classista, ma temo che gli autori pensino che sia un problema universale,
e non sospettino che l’estrema ingiustizia sociale ed economica italiane sono
un unicum in Europa continentale, e
ci avvicinano invece ai Paesi anglosassoni. Non parlo della Svezia o della
Germania, parlo anche di paesei mediterranei, in cui le disuguaglianze di reddito e di classe sono
molto minori che in Italia. E questo certo è dovuto alle inadeguatezze
della politica, ma soprattutt, ahimé, al fatto che le masse, in larghissima
parte, invece di chiedere diritti – come nel resto d’Europa - hanno chiesto
“aiutini”. Come il padre di Caterina, che conclude, dopo il fallimento della
sua questua, che la società è immodificabile. Come se non esistessero altri e
più efficaci modi per modificarla, come se il film non avesse potuto
concludersi con almeno uno dei tre della famiglia che in un sussulto di
dignità dice ai privilegiati : “ma chi vi vuole”. I ricchi sono ricchi e si
comportano da ricchi, ma non sta scritto da nessuna parte che i poveri debbano
comportarsi da accattoni. Ma anche questa semplice costatazione sembra mancare
al regista.
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