Guardando i bambini di una qualsiasi famiglia italiana, mentre frignano, fanno i capricci, disturbano i vicini – come viene sottolineato dagli osservatori stranieri – non si può mancare di osservare nello sguardo compiaciuto dei genitori un messaggio che verrà inviato infinite volte nel corso della prima infanzia ai pargoletti: “tu sei speciale perché sei mio figlio”. Il messaggio è ambiguo: il bambino è speciale, ma in fondo di per sé non vale nulla, è speciale perché è figlio dei suoi genitori. Questo messaggio forse spiega il misto di vittimismo, di mancanza di fiducia in sé stesso – gli stranieri, specialmente francesi, ci disprezzano perché in guerra non ci buttiamo nel combattimento – che derivano dall’annullamento del figlio rispetto al genitori – e di narcisismo, supponenza, vanteria, che derivano dal fatto di essere “speciale”.
Il messaggio rimane fondamentalmente inconscio. Quando l’infante non è più infante e comincia a parlare il padre si incarica della costruzione del super-io cosciente, impartendogli come preziosa massima di vita che deve pensare solo a sé stesso e che deve farsi strada a gomitate (nel caso migliore). E da qui l’inesistenza della dimensione collettiva in Italia – anche nelle persone di sinistra.
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